Pietro Castellitto
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
“Popolo felice, celebrato per favolosi miracoli… Stanchi della vita, si uccidono gettandosi in mare da una rupe: lietissimo è questo genere di sepoltura”: se Plinio il Vecchio benediva Gli iperborei, il romanzo che Pietro Castellitto ha scritto dopo il suo esordio da regista, I predatori, Enea dichiara esplicitamente il legame con Virgilio, rincorrendo il mito dentro il nome, per sentirsi vivo in un’epoca morta e decadente. A cercar la bella morte, insomma, perché tutto torna e tutto si tiene. Più degli illustri genitori (Sergio e Margaret Mazzantini, per i distratti, il David di Donatello scagliato nei Predatori e il Premio Strega qui spesso aleggiante: Pietro principe ereditario dell’impero del midcult) a definire ambizioni e orizzonti di un golden boy in piena seconda fase arbasiniana (quella che segue la “bella promessa”, per intenderci) è il nonno Carlo Mazzantini, che sessantenne si rivelò memorialista, disseppellendo il passato più ignominioso, cioè quello di Salò: adolescente repubblichino, cresciuto con il mito della guerra futurista, si scoprì abbandonato e in lotta con un nemico invisibile, e così il rancore svanì nella nostalgia, il rimpianto personale nel revanscismo di chi in una storia personale lesse l’angoscia collettiva. Che c’entra con Enea? C’entra perché, sì, la bella morte è un mito che persiste, ma la mistica del martirio si scialacqua nel suo residuo e il volo a planare di un aereo configura la tanatofilia di una generazione che per pigrizia paternalista si vorrebbe sempre connessa ed è invece così malinconicamente scollegata dalla felicità. Così accade in questa Roma nord che sembra il Vietnam (l’ormai nota iperbole, al di là del sarcasmo nei confronti del rampollo privilegiato, riluce nel pessimismo), dove si continua a ballare Bandiera gialla, una cover di mezzo secolo fa che è un po’ l’inno di chi preferiva il Piper al Sessantotto. Il passato non è una terra straniera: è tutto ciò che ci resta. Il presente è quello che è, il futuro è passato e non ce ne siamo nemmeno accorti: “Nonna, perché il futuro fa più paura della morte?” ci si chiedeva, invano, nei Predatori.
Orgiastico nel nichilismo, caotico per metodo, il classico come fuga. “Cantami, o Diva, dell’ira funesta e gestisci la rabbia/ Il deserto ce l’hai in testa perché siamo in Alaska/ È come darci un bacio, senza la faccia/ È come un attentato a Piazza di Spagna”: sono parole da Qualcuno che si esplode di Tutti Fenomeni, al secolo Giorgio Quarzo Guarascio, che qui è Valentino l’aviatore appena battezzato al cielo, l’amico e il sodale. Canzone che, come Gli iperborei, è costola del film, al pari dei suoi due album chez Niccolò Contessa, già I Cani, uno che nel 2011 aveva già previsto Enea (“I pariolini di diciott’anni comprano e vendono cocaina/ Fanno le aperte coi motorini/ Odiano tutte le guardie infami/ Animati da un generico quanto autentico fascismo/ Testimoniato ad esempio dagli adesivi sui caschi”).Enea come epicentro generazionale: dieci anni dopo quel signore che dichiarava di non poter più perdere tempo a fare cose che non gli andava di fare, che voleva avere il potere di far fallire le feste, ecco uno che vecchio non lo sarà mai (“Per diventare vecchi ci vuole solo l’amore”: consiglio che è monito, commento che è sentenza), un giovin signore che per compassione nemmeno Trilussa dissacrerebbe. La grande bruttezza è un repertorio di immagini (le sigarette elettroniche, i sushi, le cacche dei gabbiani, la cocaina: da Ecce bombo a Ecce bamba), di luoghi (il circolo tennis sul Tevere, una veranda distrutta da una palma, il bagno di una villa dove immaginare l’inaudito dell’amore), di sentimenti (la depressione che “fa un sacco di vittime”, le bestemmie dette fuori campo a Sergio Castellitto già blasfemo ne L’ora di religione qui in clamoroso cortocircuito).
E quel che resta del romanzo criminale è materia romanzesca e perfino romantica, tant’è che la morte non risparmia nemmeno il reduce di una stagione ormai trasfigurata nel mito. L’unico a capire che il pezzo mancante – non è la droga sottratta: svuotiamo il lessico dei banditi e riconsegniamolo ai poeti – è l’amore: i baci non si vedono mai, oscurati per pudore, tagliati per spavento, rimossi per disperazione, impossibili da mettere in scena. A meno che non siano quelli dei genitori: difettosi ma vivi, capaci di preservarsi malgrado i segreti (o proprio grazie a questi), detentori di un passato che per i figli è una lezione inascoltata, un ingombro traumatico. Come si fa “uccidere il padre”, come si può avere un reale conflitto con la generazione precedente, se ci portano in dote, ci scaraventano in faccia, l’unica idea d’amore possibile? Tanto vale volare insieme, l’attentato come atto poetico, una di quelle avventure che “non finiranno se per quegli amori esisteranno nuove spiagge”. Enea è la rutilante trenodia di un giovane incapace di diventare grande, un affresco che si prende carico di una parte (la borghesia che tutto ha e nulla pretende se non l’impossibile ovvero l’annichilimento) e scopre l’umore, il colore, l’euforia, il dolore di una generazione tutta. Imprigionata nella nostalgia di cose mai vissute, la paura di chiedere a se stessi meno di quanto ci chiedono gli altri (un’aspirazione che è ineluttabilmente presunzione), l’impotenza di fronte al destino che riluce come un’eclisse negli sguardi dei due sposi innalzati al cielo. “Non so più fare come se non fosse amore/ se per errore chiudo gli occhi e penso a te”: una sentenza.
Enea e l’amico Valentino sono molto uniti. Spacciano droga, non mancano alle feste più cariche di energia e per di più il secondo ha preso da poco il brevetto di pilota su aerei da turismo. La famiglia di Enea si compone di un padre psicoanalista malinconico, di una madre che non ha smesso di amare il marito e di un fratello che a scuola ha più problemi che soddisfazioni. Gli resta l’amore a sostenerlo anche quando finisce in una vicenda difficile da gestire.
Pietro Castellitto descrive un milieu sociale che mostra di conoscere bene sul quale applica una molteplicità di strategie narrative. Nella sua saggezza atavica Massimo Troisi, dopo il successo di Ricomincio da tre, affermava di non voler girare il secondo film ma piuttosto di avere intenzione di passare direttamente al terzo. Perché l’opera seconda ha insite, da parte del pubblico e della critica, aspettative su esiti che è difficile conservare all’altezza della precedente. Pietro Castellitto con il suo film d’esordio I predatori ha ottenuto il David di Donatello quale miglior regista esordiente quindi si trova in una condizione analoga a quella presa in considerazione da Troisi. Gli va dato atto che la coerenza è una dote che non gli fa difetto così come la spericolatezza nella stesura di una sceneggiatura che sostiene con la professionalità propria di un regista che, lo si vede, si è nutrito di cinema sin dall’infanzia. Si avverte anche il bisogno morale di descrivere quello che definisce “il mistero della giovinezza” andando ad analizzare non il mondo delle borgate o dei socialmente deprivati (che già tanto cinema ambientato a Roma ci ha proposto) ma quello di chi sta bene e può permettersi discettazioni che suonano più recitate che dette nella sequenza di apertura. Non si tratta ovviamente di problemi di recitazione da parte degli attori ma della prima delle tante variazioni di stile che Castellitto si consente rischiando il barocchismo estetico che un Sorrentino sa da tempo come gestire e che qui avrebbe bisogno di qualche sottigliezza in più. Il plot che sottende la struttura narrativa potrebbe rimandare al genere gangsteristico ma è quello che invece qui si vuole assolutamente evitare. Perché Pietro vuole volare alto come il suo Valentino sorvolando gli abissi esistenziali muovendosi sulla corda tesa di un realismo che sembra non poter sussistere nel suo cinema senza sposarsi con il surreale o il grottesco. Si veda la scena della palma oppure l’uso decisamente stravagante dei salmoni, solo per fare due esempi fra i tanti possibili. L’iperbole è la materia prima di cui fa un uso apparentemente privo di limiti.
Quello che gli consente di eccedere, senza subire troppi danni, è la presenza di papà Sergio non, come si potrebbe pensare, come nume tutelare della realizzazione del film ma in tutt’altra funzione. Ogni volta che il suo personaggio, calmo e pacato ma con dentro una tensione profonda, compare sullo schermo tutto diventa accettabile. Così anche la scena più estrema consente allo spettatore la sospensione dell’incredulità. Per il cinema, nonostante tutto, è ancora indispensabile.
Enea è come una macchina potentissima senza un pilota che la sappia guidare correttamente. Che fantasia quella di Pietro Castellitto! Che straordinaria capacità di creare immagini iconiche. Tutto è coerentemente patinato all’inverosimile e non convincerà ad amare questo stile chi già non lo sopporta. Anzi. Però, cinematograficamente, lo sguardo del giovane regista è in assoluto tra i più promettenti che la nostra industria abbia espresso. Movimenti di macchina vertiginosi, un incredibile senso del ritmo si coniugano con un invidiabile gusto estetico. Enea diventa così dissonante: una bellissima confezione in una sceneggiatura ruvida. Sono numerose le idee da antologia: la madre pratica la mindfulness immersa nella musica; una palma si schianta sulla vetrata del cortile della casa spaccando in mille pezzi il vetro, ma lei non si accorge di nulla. Di questo parla il film: di adulti ciechi e sordi mentre intorno regna il caos.
Quando questa sequenza si trasforma anche in una gag ricorrente, il film si eleva in scrittura. “La sua testa è brillante!”, viene detto al personaggio di Sergio Castellitto perché un vetro incastrato tra i capelli riflette luce all’interlocutore. “Oh grazie mille, ma anche tu non sei male”, risponde con falsa modestia. Radek Ladczuk fotografa Roma, ma soprattutto la dolce vita di questi giovani autodistruttivi, con dei colori pieni di spessore, con una cura da grande produzione hollywoodiana. Bellissima l’immagine (un po’ alla Homer Simpson) di Enea nascosto nella siepe per spiare una bella tennista di cui è innamorato. La risposta a cosa significhi Enea, la giustificazione alle sue volgarità (pesci sodomizzati) e ai suoi buchi (perché tutto questo accade? Chi sono i personaggi di contorno che fanno parte di questo ricco club?) sta nell’identificazione perfetta tra il film e il desiderio del suo protagonista. La voglia di essere incendiari per vincere la noia. Non è dato sapere se questa sia solamente esistenziale o sia un fastidio verso le convenzioni del cinema italiano. Fatto sta che Enea cerca di distanziarsi dal nostro modo di fare cinema più stereotipato. Al contempo è costretto ad aderire all’immaginario trito e ritrito del radical chic crudele. Dietro l’apparenza c’è un’animo oscuro, un disagio profondo. Castellitto, a differenza di molti altri registi (uno su tutti Muccino), questo aspetto da villain lo mette sin da subito in primo piano. È un film senza eroi, Enea. Può dare noia questa gioventù nichilista, così convinta delle proprie idee da risultare frivola. È però un cinema estremo, senza bianco o nero, senza compromessi. Ci si butta dentro per venirne travolti, non cullati. Se la rabbia sarà una delle emozioni all’uscita, non significa che il film non abbia fatto il suo dovere.