Stefano Cipani
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Attività
Presentazione e critica
Cita Bunuel, i cartoni animati anni 70′ di Ralph Bakshi, il punk e confessa di aver voluto realizzare un dramma da camera, “un classico senza fronzoli”. Così Stefano Cipani, che in molti hanno avuto modo di apprezzare ai tempi del suo esordio alla regia nel 2019, Mio fratello rincorre i dinosauri, realizza la sua opera seconda, Educazione Fisica. Il film è un Kammerspiel a metà tra satira sociale, commedia nera e cronaca contemporanea, una discesa agli inferi tra le atrocità ben celate della buona borghesia solo in apparenza civile. Le regole della rappresentazione seguono quelle del realismo, (…) ad essere invece sempre verosimile è la mostruosità dell’essere umano diabolicamente senza limiti in cui i fratelli D’Innocenzo, autori della sceneggiatura, scavano senza pietà tirandone fuori l’aspetto più assurdo.
Alla base di Educazione fisica c’è il testo teatrale La Palestra di Giorgio Scianna portato in scena con la regia di Veronica Cruciani, una pièce feroce sulla famiglia che diventa branco, ambientata nella polverosa e scalcinata palestra di una scuola dove tre genitori vengono convocati dalla preside. Il luogo rimane lo stesso anche nell’adattamento per il cinema pensato da Damiano D’Innocenzo e Fabio D’Innocenzo che trasferiscono l’azione nella periferia romana nell’istituto Enrico Fermi (come mostra la panoramica in apertura del film) e portano i personaggi da quattro a cinque. Il “fattaccio” per cui i quattro genitori sono stati convocati rimane lo stesso: una ragazza della scuola è stata stuprata ripetutamente e i responsabili sarebbero i loro figli, Cristian, Arsen e Giordano. Lo spazio angusto di quella palestra in rovina, diventa il palcoscenico di un tutto contro tutti, la location di un bestiario umano di varia natura: Franco è il papà di Cristian, compra e vende immobili e ha una relazione clandestina con Carmen, la madre di Giordano, una donna profondamente infelice, separata dal marito; Aldo e Rossella invece, sono i genitori adottivi di Arsen, lo hanno portato via dall’Africa, lei è una casalinga, lui lavora in ospedale all’accettazione.
E poi c’è la preside, Diana Peruggia, donna dalla morale irreprensibile che li convoca per informarli dell’accaduto e dell’urgenza di avvisare la polizia. Padri e madri passeranno dall’incredulità inziale (“Sono solo dei bambini”, “lei ha fatto la galletta, la seducente” e “si sono fatti sedurre”), ai tentativi più assurdi e ostinati per salvare l’immagine dei propri figli, mentre la palestra si trasforma in un’aula di tribunale. In un crescendo emotivo in cui il quartetto finirà per minacciare la preside, aggredirla e offrirle “un prezzo congruo” per comprare il suo silenzio, si consumerà un lento gioco al massacro fino ad un’inattesa svolta thriller, un tragico incidente che rimescola le carte in tavola e funge da nuovo catalizzatore di oscenità.
Viene subito in mente Carnage di Roman Polanski, ma qui siamo abbastanza lontani da quelle vette di causticità e rigore; l’impianto è quello teatrale, e anche tra le quinte di un palcoscenico i fratelli D’Innocenzo continuano la loro narrazione del male, inabissano il pubblico nella tossicità di un mondo piccolo borghese e non gli risparmiano tutta la bruttezza di un’umanità che di umano non ha quasi più nulla. Sul proscenio si agitano padri e madri affannati a proteggere i propri ragazzi, a deformare la verità, a manipolarla, a non volerla vedere se non come “i deliri di una sbandata”, niente più di una ragazzata; la tensione cresce e si susseguono gli sforzi maldestri per raggiungere un compromesso che salvi tutti.
Ogni personaggio, anche i più miti e insospettabili come i coniugi Stanchi (i genitori di Arsen), rivelerà così la propria natura bestiale: colpevoli senza pentimento, in un mondo desolante e privo di redenzione. Nel frattempo fuori in cortile quei tre figli destinati a rimanere fuori campo per tutto il film giocano a pallone: una presenza annunciata dal vociare e dalle pallonate che più di una volta colpiranno il vetro già in frantumi di uno dei finestroni della palestra.
La palestra, nella delimitazione scolastica, è luogo di sfogo, disciplina, divertimento, competizione, gara individualistica o gioco di squadra. Educazione Fisica è negazione aberrante di un’umanità che, come la sua palestra, cade letteralmente a pezzi. Profanata, usurata, polverosa e decadente, la scuola è lo spazio soffocante chiamato a ospitare lo scontro violentissimo del film. La claustrofobia fisica è il pretesto di una storia che sceglie di tallonare i suoi protagonisti nell’atto drammatico di smascheramento di sé. L’interrogativo, posto a monte di qualsiasi possibilità di giudizio, è per te, spettatore: come reagiresti alla tensione asfissiante di una verità ripugnante? E se questa riguardasse tuo figlio? (…) Lo stupro della giovane ragazza è la ghiotta occasione per portare a galla un dibattito classico che spazia sui temi della negazione, irresponsabilità, giustificazione, manipolazione e, ovviamente, colpevolizzazione della vittima. Il gruppo di genitori, perfino di fronte all’evidenza di un video, fatica ad accettare la mostruosità insita nei propri figli, spingendosi fino al completo rifiuto della realtà: invece di responsabili si sentono giudicati, umiliati e bisognosi di quella stessa compassione che non sono in grado di offrire. Il gioco della vittimizzazione si ribalta e cala il sipario. Touché.
A metà il film viene scosso in avanti da un colpo di scena che alza l’indice di inattendibilità ma al contempo dà nuova linfa a un ritmo quasi sul punto di sopirsi: lo slittamento sottile tra i generi riaccende la narrazione con una reiterazione di temi che fa ricadere le colpe dei padri sulle spalle dei figli e viceversa, contribuendo al cortocircuito desolante di un’umanità immorale. In uno dei suoi solipsistici monologhi, Franco parla degli studenti -maschi- delle scuole superiori additandoli di un’ovvietà ontologica: più crescono e più, naturalmente, diventano bestie. Difficile non sentire l’eco degli sceneggiatori.
La scrittura dei fratelli D’Innocenzo si è sempre mossa sui margini della cronaca nera, paralizzandosi nelle periferie ambientali e morali dei suoi personaggi e sventrandone, con cruda e delicata esplorazione, la psiche. Educazione Fisica è ancora questione di cronaca, di quella tipologia che utilizza il filtro della narrativizzazione per dare colore e rendere il dramma avvincente, coinvolgente, spendibile. C’è un momento, sul finire del film, in cui i personaggi discutono su quale versione dei fatti raccontare alla polizia: nell’escandescenza di un dibattito tragicomico la sceneggiatura si prende il tempo, morigerato, per fare scuola su come trasformare la fattualità in emotività trascinante, sfiammandone la gravità. Se la disgrazia diventa notizia, il pathos proclama salvezza, scommettendo tutto sull’empatia.
Uno storytelling violento, che nelle mani dei due sceneggiatori romani si è sempre rivelato ritratto crudele di quel maschilismo ad alta infettività incuneato in ogni angolo della società. Educazione Fisica è figlio dello stesso sistema, vittima sconfitta di un patriarcato brutale, sintetizzato dalla figura di Franco ma innervato in tutti i comprimari: Aldo, Carmen e Rossella. Uomini o donne non fa differenza, in ogni personaggio è tradotto un atteggiamento che fortifica e riecheggia l’insieme di sovrastrutture incrinate e distorte. A fronte di una tossica virilità, sovraesposta da atteggiamenti misogini, razzisti e denigratori, il destino della rappresentazione femminile passa per un meccanismo punitivo ancora peggiore: le donne di Educazione fisica non lavorano (o se lo fanno ci si sorvola), sono pazze, isteriche, stupide e sessualmente provocatorie. Si salvano solo se abbassano il capo, perché a lottare contro corrente si finisce, inevitabilmente, sconfitte. La metafora funziona, colpisce, raggela. (…) Sullo schermo e nel ricordo rimane un affresco indigesto di violenza che germoglia incensata, tramandata da una generazione all’altra e rintoccata con indifferenza dalla risata dei ragazzi che risuona, incurante, nel fuoricampo.
In fondo, sono loro i mostri del futuro.