Dirty, Difficult, Dangerous

Wissam Charaf

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Premio Label Europa Cinemas come Miglior Film Europeo alla Mostra del Cinema di Venezia, 2022

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Ahmed, un rifugiato siriano, e Mehdia, un'immigrata etiope che lavora come domestica, vivono un amore clandestino fatto di baci furtivi nelle strade di Beirut. Mentre Mehdia cerca di svincolarsi dai suoi datori di lavoro, Ahmed, affetto da una misteriosa malattia, si guadagna da vivere vendendo metalli di riciclo. La loro storia non ha futuro, ma non hanno nulla da perdere. Decidono così di fuggire alla disperata ricerca di una vita migliore. Nel frattempo, le condizioni di Ahmed cominciano a peggiorare...
DATI TECNICI
Regia
Wissam Charaf
Interpreti
Clara Couturet, Ziad Jallad, Rifaat Tarabay, Darina Al Joundi, Kawsie Chandra, Carol Abboud, Ghina Daou, Rémi Fadel, Wissam Charaf, Rami Rkab
Durata
83 min.
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Wissam Charaf, Hala Dabaji, Mariette Desert
Fotografia
Martin Rit
Montaggio
Clémence Diard
Distribuzione
Intramovies, con la collaborazione di Cineclub Internazionale
Nazionalità
Francia, Italia, Libano
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

A Beirut, i percorsi di due outsider si intrecciano in un amore reso difficile dalla città e dalle condizioni di vita. Ahmed è un rifugiato che viene dalla Siria, pieno di metallo in corpo e che cerca di sopravvivere come può rivendendo materiali di recupero. Mehdia è una ragazza etiope che lavora come badante presso una famiglia che la tratta da schiava. I due si incontrano in rapidi attimi rubati, si danno conforto e progettano una fuga insieme. Al secondo lungometraggio ma con una carriera variegata tra giornalismo, corti e video musicali, il regista libanese (di stanza in Francia) Wissam Charaf possiede l’occhio giusto per raccontare storie con un interesse sociale e una certa originalità di stile. Lo conferma con Dirty Difficult Dangerous e il suo idealismo romantico come atto di resistenza ai soprusi. La vita a Beirut non è facile, ma Charaf la mette ancor più in prospettiva rispetto a ciò che siamo abituati a vedere nel sempre stimolante cinema libanese. Qui gli immigrati devono vedersela con ulteriori micro-aggressioni, regole speciali, e un diffuso senso di antipatia dei locali.

Ciò vale non soltanto per Ahmed e la sua condizione di rifugiato che vive per strada, ma anche per chi come Mehdia un lavoro ce l’ha, e che si trova prigioniera della realtà domestica in cui abita. La discriminazione è dunque identitaria e totale, ma Charaf non si abbandona al melodramma più puro. Anche nelle immagini, calme e composte con cura in un formato a misura di persona, il regista mantiene un tono del racconto misurato, che sa mescolare il pathos a un humor delicato capace a tratti di sfiorare la satira sociale. C’è un rapporto che cresce e un corpo che si riempie di metallo, due forze opposte che si danno battaglia mentre dal teatro urbano di Beirut la storia si sposta verso est. Un’attrazione “magnetica” di ritorno, che ben conclude la traiettoria più originale del film e accompagna i volti sempre pieni di speranza dei due protagonisti Clara Couturet e Ziad Jallad, sulle cui espressioni si regge molto del successo di un amore e di un racconto.

Mymovies.it

Dirty Difficult Dangerous, film d’apertura delle Giornate degli Autori 2022 alla Mostra del Cinema di Venezia (dove si è aggiudicato il Premio Label Europa Cinemas per il Miglior Film Europeo), è il secondo lungometraggio del regista franco-libanese Wissam Charaf. Nella pellicola, dai contorni quasi fiabeschi, sono evidenti entrambe le componenti: le origini libanesi, con la complessità sociale che caratterizza il Paese, ma anche le influenze del cinema francese tanto nei ritmi cadenzati quanto nella capacità di fotografare l’intensità dei “momenti”.

I due protagonisti, interpretati da Ziad Jallad e Clara Couturet, si fanno apprezzare per la profondità della loro anima contrapposta alla semplicità con la quale vengono rappresentati. Due diamanti allo stato grezzo, si potrebbe dire. Lui si guadagna da vivere come può e nemmeno la misteriosa malattia di cui soffre riesce ad intaccare la sua dignità. Lei fa la badante con passione ed empatia, sognando datori di lavoro che la trattino con rispetto. Sullo sfondo, la Beirut dei giorni nostri, segnata dalla guerra, dalla miseria, dalla sofferenza dei rifugiati e da piaghe sociali inaccettabili come il traffico di esseri umani.
“Ho voluto raccontare l’incontro di due angeli caduti, Ahmed e Mehdia, due emarginati costretti ad affrontare quotidianamente pericoli e discriminazioni razziali”, ha dichiarato Charaf. “Un melodramma in cui crudeltà, commedia e tenerezza si intrecciano, offrendo una visione intima della società libanese odierna, descrivendo la tragedia di tre popolazioni attraverso un solo paese: il razzismo verso i lavoratori domestici, la miseria dei rifugiati siriani e la decadenza morale dei cittadini libanesi che li sfruttano. Anche se ispirato a una realtà crudele, ho preferito che il mio film proponesse una realtà rivisitata e un punto di vista differente su miseria e pathos”. E il punto di vista offerto è proprio quello di Ahmed e Mehdia. Il loro amore è caldo e tenero, fatto di tenerezza e attimi che scorrono via sempre troppo in fretta. È per questo che colpisce la volontà di denuncia di Wissam Charaf ma anche il desiderio di fuga dei suoi protagonisti, nonostante la presenza incessante di un destino imperturbabile che nulla sembra scalfire.

Sentieriselvaggi.it

Da un’intervista con il regista

Una storia che guarda al sociale ma con leggerezza. Cosa ti ha ispirato?

Essenzialmente due cose. Nel 2012 vivevo in Libano, dove vivo ancora oggi, ed è iniziata la guerra in Siria. E nel quartiere dove abitavo abbiamo cominciato a vedere le strade riempirsi di profughi siriani che arrivavano quasi nudi, con null’altro se non i vestiti che indossavano; spesso li sentivamo ripetere questa filastrocca, che nel film recita anche il protagonista Ahmed, “Ferro, rame, batterie”, con cui chiedevano alle persone di dare loro qualsiasi tipo di metallo usato per riciclarlo. Quando qualcuno gli portava qualcosa, lo caricavano sulle spalle e continuavano a camminare. Nello stesso tempo, nel quartiere abbastanza borghese in cui vivevo, vedevo spesso tante domestiche etiopi che camminavano portando a spasso i cani o i loro datori di lavoro, persone anziane che facevano la loro passeggiata quotidiana. E ho subito visto qualcosa che mi ha fatto pensare al mito di Sisifo: si aggiravano nelle strade come degli Atlante, ma erano infinitamente più deboli e piccoli. In quel momento ho sentito qualcosa, il cuore ha iniziato a battere e ho iniziato a pensare che avremmo dovuto raccontare quelle storie.

Come ci sei riuscito?

Non volevo fare un film che fosse l’ennesimo lamento o grido di sofferenza, perché questo è quello che succede di solito, è così facile far piangere le persone mostrando qualcuno piangere del proprio dolore. Zero senso del cinema, non mi piace. Così ho provato a immaginare un collegamento diverso e mi sono chiesto quale potesse essere il modo per ribaltare la situazione, e quello che ho pensato è che queste persone possono amarsi. E perché è interessante mostrare una storia d’amore? Perché agli occhi del borghese medio libanese con cui parlo spesso, quelle persone non hanno diritto a una vita sentimentale, o non le immaginano abbastanza umane per avere una relazione amorosa. Sono considerate dei subumani. Quindi mi sono detto: “Ok, questa è un’affermazione sufficientemente politica per interessarmi. Diamo una vita amorosa a quegli emarginati, ma non rendiamolo un film deprimente, pensiamo a realizzarne piuttosto uno gioioso e leggero”. Tutti da una storia simile si aspetterebbero qualcos’altro: una ragazza che viene violentata, il ragazzo picchiato e fiumi di lacrime. Ma per me questo tipo di linguaggio non era interessante e ho pensato: “Cerchiamo di essere punk, raccontiamo una storia d’amore e portiamo qualcosa di non realistico in un ambiente estremamente reale”.

Un film surreale per raccontare la miseria e la guerra. Come sei arrivato a questo tono? Avevi le idee chiare sin dall’inizio o la sceneggiatura è cambiata nel tempo?

Il film si basa su uno scostamento di piani sia a livello narrativo che in termini di lavorazione. Ho cominciato a scriverlo proprio qui a Venezia, quando nel 2012 sono venuto alla Mostra come giornalista. All’inizio era un film fattuale e con caratteristiche sociali, ci abbiamo lavorato in tre e volevamo che ci fosse un’idea di vampirismo alla base mantenendoci ancorati al sociale, ma non potevamo fare un film alla Ken Loach. Ci sono state diverse versioni, ci sono voluti dieci anni per realizzarlo e via via abbiamo inserito le parti oniriche, quelle da sitcom, e il resto. È un film sociale senza essere un film sociale. All’inizio è andato tutto velocemente, ma con la coscienza che non bisognava fermarsi. Ho cominciato a conoscere questa realtà come giornalista, scrivendone, facendo reportage sui rifugiati siriani e raccogliendo i racconti delle domestiche etiopi nelle case della borghesia libanese.

Movieplayer.it