Daliland

Mary Harron

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New York, 1973, Salvador Dalì vive al Ritz insieme alla moglie Gala e sta preparando la sua prossima personale. James, un giovane stagista di una galleria, viene scelto da Dalì in persona affinché gli faccia da assistente personale mentre ultima le tele da esporre ed ha così l'occasione di osservare da vicinissimo la parabola discendente di uno dei più grandi artisti di sempre. L'uomo dietro l'artista è pressoché distrutto: i suoi discorsi sono imbevuti in un'insopprimibile angoscia per la morte, conduce uno stile di vita che lo consuma, sia economicamente che emotivamente, mentre il Parkinson galoppante riduce le sue capacità artistiche al lumicino.
DATI TECNICI
Regia
Mary Harron
Interpreti
Ben Kingsley, Barbara Sukowa, Ezra Miller, Christopher Briney, Rupert Graves, Andreja Pejic, Alexander Beyer, Mark McKenna
Durata
104 min.
Genere
Biografico
Sceneggiatura
John Walsh
Fotografia
Marcel Zyskind
Montaggio
Alex Mackie
Musiche
Edmund Butt
Distribuzione
Plaion Pictures
Nazionalità
Usa
Anno
2022
Attività

Presentazione e critica

Una meravigliosa istantanea degli anni ’70 che mette al centro un Dalì crepuscolare sospeso tra pulsioni di morte, malattia e nodi irrisolti.
Esistono nella storia dell’umanità, e dunque di riflesso nella letteratura, dei personaggi talmente complessi e prismatici da annichilire chiunque tenti di rinchiuderli in una pagina. Quando si ha a che fare con soggetti di questo tipo, il racconto in prima persona è del tutto impensabile, poiché nessun autore, per quanto capace, saprebbe far ordine in una mente che deve la sua stessa genialità al caos. Lo sapeva bene Fitzgerald, che quando si approccia a scrivere la sua opera più celebre, “Il Grande Gatsby”, decide di delegare il ritratto del suo chimerico protagonista a un altro personaggio, Nick Carraway, in modo da poterlo scandagliare dall’esterno. E lo sanno bene anche Mary Harron e suoi sceneggiatori che attraverso il personaggio di James, riescono nella difficile impresa di raccontare sia il Dalì-personaggio che il Dalì-uomo.
Come l’uterque-homo petrarchesco, scisso da terribili dissidi, Dalì ha totalmente perso il contatto con il suo vero io, fuorviato dalla dimensione pubblica, sentimentalmente straziato dai tradimenti di Gala e ossessionato dalla morte. Costretto a dipingere solo per finanziare il suo trimalcionico stile di vita, Mary Harron mette in scena un Dalì sul viale del tramonto, che cerca di aggrapparsi con tutte le sue forze all’amata moglie, ma dalla quale riceve solo tradimenti e rancore.
Tema interessantissimo che Mary Harron sviscera a dovere è quello della sessualità: oltre che cruciale nell’opera di Dalì, il sofferto rapporto con la sua libido ci viene presentato come un vero e proprio leitmotiv della sua vita. Al Ritz di New York, perciò, Dalì si circonda di un serie di modelle-muse che compongono il suo harem della castità: sembra che l’impossibilità dell’atto sessuale sia per Dalì l’ispirazione prima, dal momento che l’immaginazione e l’osservazione sono alla base dell’ispirazione artistica, mentre l’atto pratico, nella sua concreta e brutale attuazione, è spurio da ogni forma di poesia e astrazione.

Gli anni ’70 sono poi per Dalì un punto di non ritorno soprattutto per la sua carriera: quel limite tra uomo e personaggio, diventato via via sempre più labile, veniva percepito dal pubblico di allora come una tendenza dell’artista ad accartocciarsi su sé stesso, a diventare irrimediabilmente una sorta di figura caricaturale. E di conseguenza i grandi critici iniziano ad ignorarlo, a non prenderlo più sul serio, sancendone di fatto il crollo. Dalìland, dunque, è il crepuscolo degli idoli del maestro del surrealismo, che progressivamente perde la giovinezza, la salute, poi il contatto con sé stesso, perde tutti i soldi e anche la sua popolarità, fino a una perdita durissima sul finale, dalla quale non potrà mai riprendersi.
Sorrentino in Youth fa dire a Paul Dano che ogni grande attore può permettersi di raccontare solo un’emozione del suo personaggio. La passione di Dalì: questa è l’emozione che Ben Kingsley sceglie di raccontare, e non avrebbe potuto fare scelta migliore. La passione per l’arte, per la vita, per la spettacolarità: Dalì ha amato con passione per tutta la sua vita, con ogni fibra del suo corpo, fino a crollare per lo sforzo. La capacità di Ben Kingsley di raccontare tutto ciò è semplicemente spiazzante.
Concludo mettendo il punto esclamativo sulla consueta classe di Mary Harron nella costruzione di mood e atmosfere: tutte le scelte stilistiche, dalla colonna sonora, alle scenografie, passando per i costumi e i dettagli, sono sofisticatamente azzeccate e del tutto estasianti.

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Ipocondriaco, ossessionato dalla morte, disgustato dagli spinaci e attratto solo del cibo dalla forma ben definita, ma soprattutto devoto alla sua unica musa: Gala, chiamata anche Galina, Olivette, nel cui cuore ha riconosciuto un tempo la sua stessa follia, eleggendo questa donna, non proprio accomodante, a compagna insostituibile di una vita intera.
Un Salvador Dalí come probabilmente non lo abbiamo mai visto emerge dal biopic DALILAND, al cinema dal 25 maggio, distribuito da Plaion Pictures. Diretto dalla regista canadese Mary Harron (American Psycho) e con il camaleontico Premio Oscar Ben Kingsley nei panni dell’eccentrico artista, affiancato da Barbara Sukowa nel ruolo di Gala, dispotica moglie di Dalí, sua musa e ossessione, il biopic sfida le convenzioni.

Non aspettatevi di vedere correre sul grande schermo la solita sfilza di opere realizzate del genio con relativi commenti. DALILAND ci insegna che l’opera è la vita del genio stesso, mentre la genesi dei suoi lavori viene tessuta dalla produzione attraverso l’universo di Dalí, i personaggi che gli gravitano intorno, le trasgressioni, le feste, le situazioni, anche grottesche, che lo hanno investito, travolto, talvolta deluso, ma certamente ispirato, simili a scintille provenienti da una fantasia sfrenata mista al vero.
Puntando l’obiettivo sul crepuscolo della carriera del pittore di Figueres, la regista Mary Harron delinea l’elettrizzante ritratto di una delle figure più iconiche del XX secolo, dall’esistenza sospesa tra genio e sregolatezza. È (o potrebbe essere stato) tante cose l’istrione dagli eccentrici baffi: uomo di spettacolo, scrittore, fumettista, talmente abitudinario da vivere per anni nella medesima camera dell’Hotel St Regis di New York, la numero 1610, adibita a studio. Il ritratto cinematografico del maestro surrealista, ma soprattutto dell’uomo Salvador, passa attraverso gli occhi “nuovi” di James Linton (Christopher Briney), il giovane stagista di una galleria, scelto dal pittore in persona affinché gli faccia da assistente personale mentre ultima le tele da esporre nella mostra del 1974 a New York. Mentre cerca una soluzione a una parete senza dipinti, in vista di una mostra pronta a inaugurare, James ci invita a entrare nel baraccone, talvolta divertente, talvolta contraddittorio e ipocrita, di cui Dalí è protagonista e vittima al tempo stesso. James, un ragazzo all’inizio della carriera, ricco di speranze per il futuro, al contrario di un Salvador Dalí sempre più fragile e consumato, ha così la possibilità di osservare da vicinissimo, nella sua quotidianità, uno dei più grandi artisti di sempre, figura iconica del Novecento.

Alla proposta del maestro il ragazzo pensa di coronare il sogno della sua vita, ma presto scopre che non è tutto oro quello che luccica. Lo stile di vita sgargiante e glamour, i party sontuosi nascondono un grande vuoto che consuma l’ormai anziano pittore, divorato dalla paura di invecchiare e da un rapporto ormai logoro con Gala, circondata da giovani amanti e ossessionata dal denaro. Il film ci dice molto (ed è anche questo uno dei suoi punti di forza) anche del rapporto tra il pittore e la sua donna, Gala, nata Elena Dmitrievna D’jakonova, modella, artista e mercante d’arte russa, moglie del poeta Paul Eluard. Un rapporto governato da uno strano equilibrio nonostante i tradimenti di lei, l’imprevedibile follia di lui e la tracimante personalità di entrambi. Possessiva, austera, manipolatrice, Gala non sembra una musa, almeno nell’aspetto. Eppure “È con il suo sangue che creo la mia arte” dice con fierezza il pittore. Per lei Dalí acquista nel ‘68 un castello a Púbol, dove lui può entrare solo su invito scritto e dove Gala viene sepolta dopo la morte, nel 1982.

Nel film seguiamo il pittore de La persistenza della memoria impegnato, insieme a Gala, in una vorticosa ed eccentrica vita mondana, tra bellezze ambigue come Amanda Lear (la sua nuova musa) e musicisti trasgressivi come Alice Cooper e Jeff Fenholt, protagonista del musical Jesus Christ Superstar. Dalí, il più grande di tutti, si sente “in cima a un pinnacolo rispetto ai pittori contemporanei”, ma il paragone con Vermeer o Velázquez lo fa “cadere in un baratro”.
Il biopic ci guida nella mente dell’artista per il quale “La pittura non ha valore finché non scompare per tramutarsi in un’illusione della realtà”. La storia di Dalí, il genio che da bambino dirigeva la Tramontana e che da adulto continua a danzare nel vento in preda a paure ed eccessi di riso, convince, e in alcuni punti sorprende.

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