Saela Davis, Anna Rose Holmer
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Attività
Presentazione e critica
In un villaggio costiero irlandese, dove l’unico ristoro alla fatica quotidiana della pesca, della lavorazione del pesce e della coltivazione delle ostriche è una birra all’unico pub del luogo, il ritorno improvviso e inatteso di Brian, il figlio espatriato da tempo in Australia, proprio durante il funerale di un coetaneo, scatena sentimenti contrastanti. Si capisce subito che questo affascinante ragazzone si è già messo nei guai in passato e forse è fuggito di nuovo per tornare a una vita che aveva rifiutato. La madre, responsabile del lavoro delle altre operaie nella locale fabbrica di lavorazione del pesce, lo accoglie con gioia, esce con lui la sera mettendosi in ghingheri, quasi come se questo figlio che il marito e la figlia guardano con diffidenza, fosse per lei un fidanzato. Durante una di queste serate, al pub, Brian rivede Sarah, una giovane operaia con cui forse ha avuto un breve flirt da ragazzino, e, quando la madre se ne va, la violenta. La ragazza lo denuncia ma l’omertà del mondo maschile lo difende e la madre, incapace per troppo amore di credere che il figlio abbia fatto quello di cui è accusato gli fornisce un alibi, dando il via a una catena di nefasti eventi.
Il cinema irlandese sta conoscendo, pur nelle sue piccole dimensioni, un momento di grande vitalità, rappresentata da film come il magnifico Le streghe dell’isola (che avrebbe meritato l’Oscar, anzi, più di uno) e la rivelazione The Quiet Girl, nonché dal grande numero di straordinari attori e registi che hanno avuto i natali in Irlanda, tanti e così conosciuti che è perfino superfluo citarli. Due di questi, Paul Mescal e Aisling Franciosi, li troviamo in Creature di Dio, firmato a quattro mani da Saela Davis e Anna Rose Holmer, newyorkesi, che dirigono una sceneggiatura dell’irlandese Shane Crawley e proprio alle capacità dei protagonisti, su cui svetta una intensa e commovente Emily Watson, affidano una storia drammatica e raccontata coi mezzi toni della sottrazione.
Contano soprattutto gli sguardi, le intonazioni, i piccoli gesti nel rapporto tra le persone al centro di questo dramma, dove il nodo centrale e scatenante dei conflitti accade fuori campo. Il paesaggio costiero, flagellato dal vento, coi suoi cupi presagi e l’alta marea che reclama la sua quota di vittime umane, ricorda un po’ quello de Le onde del destino di Lars Von Trier, che aveva rivelato al mondo il talento di Watson, attrice di rara espressività, che qua non si sacrifica per l’uomo che ama, ma arriva al gesto estremo di sacrificare il figlio, non riuscendo a perdonarsi. Creature di Dio è una storia di donne, dell’impatto della violenza su una comunità e non solo sulla vittima, perché a a compierla è un uomo, figlio di donna, a cui chiede aiuto un’altra donna, lacerandone la coscienza nel conflitto tra amore materno e solidarietà femminile. Il triangolo madre-figlio-vittima è al centro di una storia che ha echi antichi e che alla fine si risolve in una possibile rinascita, solo a prezzo di un’estrema rinuncia. Meno forte nella struttura narrativa di altri film irlandesi che abbiamo visto di recente, Creature di Dio vale comunque la visione, soprattutto per le performance dei protagonisti, che non possono lasciare indifferenti.
Il sole non splende mai in un piccolo e ventoso villaggio costiero irlandese, dove quasi tutti gli uomini fanno i pescatori (e chi non sta in mare lavora nel pub) e le donne lavorano nella fabbrica ittica. Siamo ai giorni d’oggi, eppure tutto sembra appartenere a una dimensione che prescinde e trascende la contemporaneità: nonostante il mare sia per definizione il loro approdo, i maschi del villaggio si rifiutano di imparare a nuotare. Più che una sfida al destino, sembra un cieco attaccamento a un perverso e ancestrale sistema valoriale: imparare a nuotare vuol dire sentirsi obbligati a rischiare la vita nel tentativo di salvare altri. E certo non conviene mettersi contro le maree implacabili del mare, che restituisce i corpi quando vuole. Le donne che restano a casa accettano con dolore, consapevoli che prima o poi saranno loro a piangere qualcuno di caro.
Quando la giovane Erin, dopo l’ennesimo funerale di un giovane pescatore, annuncia che appena possibile intende insegnare a nuotare al figlioletto, sua madre Aileen quasi trasecola: non ci si oppone alle tradizioni e, sottinteso, al volere divino. Dichiarando questa tragica vocazione al fatalismo al crocevia di eventi che si ripetono da secoli, Creature di Dio si manifesta già tutto nell’incipit: una risacca del passato che resiste nel presente (le case dagli arredi anacronistici, la vita quotidiana ferma all’altro ieri, i rapporti umani mai filtrati dalla tecnologia), la nolontà atavica mascherata dall’impossibilità di opporsi alla natura. E, con una svolta chiaramente allegorica che dal lutto (altrui ma di tutti) porta al ricongiungimento, durante la cerimonia funebre che apre il film, all’improvviso torna Brian, l’amatissimo figlio di Aileen che è stato a lungo in Australia senza dare notizie. Non si capisce bene perché, dopo tanti anni passati a cercare fortuna, sia rientrato a casa, in un posto dove, per definizione, non esiste fortuna. E infatti Brian, che sul periodo australiano resta vago se non reticente, recupera il vecchio trabocco di famiglia e si mette a pescare, contando sull’aiuto della madre che, in fabbrica, ruba le ostriche necessarie per catturare il pesce, incolpando Sarah, giovane operaia che da sempre ha un debole per Brian.
Creature di Dio (titolo beffardo) mette in scena una spirale verso l’oscurità, una calata negli abissi della morale che interroga l’amore materno, le regole del sangue, la fiducia nel prossimo, il senso della comunità, la veirtà. C’è una forte adesione al luogo, alle sue peculiarità e alle sue contraddizioni, espressa in modo preciso dalla sceneggiatura dell’esordiente Shane Crowley.
Che le registe Saela Davis e Anna Rose Holmer, al loro debutto in coppia nel lungometraggio (Holmer ha già all’attivo The Fits, premiato agli Independent Spirit Awards nel 2016), hanno trasposto collocando la storia su due piani: l’uno sociale, con il racconto di come le vittime di violenza sessuale vengono ignorate, derise, ostracizzate dalle loro comunità spesso patriarcali; e l’altro psicologico ed emotivo, sottolineando il rapporto tra il paesaggio, fisico e umano, e Aileen, chiamata a fare i conti con convinzioni radicate, epifanie traumatiche e istinti di sopravvivenza (magnifica Emily Watson, in gran duetto con il sempre mirabile Paul Mescal).
Non è solo la radiografia di una famiglia che, nel momento in cui si riunisce, va in frantumi per le conseguenze di un’accusa infamante, ma anche la rappresentazione di come un evento divergente si ripercuote sulla piccola collettività del villaggio. Un ruolo decisivo lo gioca la fotografia di Chayse Irvin, capace di intercettare la cupa e inquieta austerità del film.
Finalmente è arrivato anche nei cinema italiani questa produzione britannica ambientata nell’affascinante e ancestrale paesaggio irlandese, lo stesso che soltanto pochi mesi fa era stato ideale sfondo di uno dei capolavori della scorsa stagione, ovvero Gli Spiriti dell’isola (2022). Ma se nel film di Martin McDonagh il dramma conviveva con un’ironia sorniona e beffarda, in Creature di Dio non ci sono inframezzi più leggeri e anzi il tutto è condito da un senso di profonda impotenza, con l’amarezza che circonda il contesto e i personaggi in un limbo senza apparente via d’uscita, almeno fino a quell’epilogo ideale via di fuga.
In un piccolo villaggio di pescatori la vita scorre tranquilla. Lo sa bene Aileen, che vive lì da generazioni e lavora in un ruolo di primo piano nell’impianto di lavorazione del pesce,
(…) Saela Davis viene dal mondo del montaggio ed è al suo esordio assoluto dietro la macchina da presa, mentre la collega Anna Rose Holmer aveva già filmato l’inedito The Fits (2015): difficile dire se sia formata una nuova coppia di registe, ma certo è che questo Creature di Dio mette in mostra una certa condivisione d’intenti nella gestione di una sceneggiatura inquieta e affascinante proprio nelle sue diramazioni più torbide. Non certo un’opera semplice, che anzi in più di un’occasione mette il pubblico di fronte a dei quesiti, spingendolo a identificarsi – comprendendo o respingendo – le scelte dei protagonisti, alle prese con dilemmi morali di non facile questione che scuotono profondamente le loro coscienze. Cuore emotivo del racconto sono le due figure femminili, la madre che deve scegliere se proteggere quel figlio gravato dall’infamante accusa e la vittima della violenza, protagoniste di un legame del tutto peculiare sul quale ruota l’essenza stessa del film.
L’ambientazione è fondamentale in questo racconto di spiriti e uomini, con il folklore e la cultura irlandese che emergono non solo nelle celebrazioni funerarie, con i canti femminili ad accompagnare il viaggio del dipartente, ma anche nelle serata trascorse nei pub, con le birra che scorre a fiumi.
Il trio di personaggi principali offre performance intense e credibili: se Paul Mescal – ancora non lo conoscete? recuperate la nostra recensione di Aftersun (2022) – è raggelante nelle vesti di una figura scomoda e respingente, da incorniciare sono Aisling Franciosi nei panni della parte lesa e soprattutto Emily Watson in quelli della combattuta genitrice, al centro di una scelta che nessuna madre vorrebbe mai doversi ritrovare a prendere.