Civil war

Alex Garland

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In un'America sull'orlo del collasso, attraverso terre desolate e città distrutte dall’esplosione di una guerra civile, un gruppo di reporter intraprende un viaggio in condizioni estreme, mettendo a rischio le proprie vite per raccontare la verità.
DATI TECNICI
Regia
Alex Garland
Interpreti
Kirsten Dunst, Cailee Spaeny, Wagner Moura, Jesse Plemons, Nick Offerman, Sonoya Mizuno, Jefferson White, Karl Glusman
Durata
109 min.
Genere
Azione
Sceneggiatura
Caty Maxey
Fotografia
Rob Hardy
Montaggio
Jake Roberts
Musiche
Ben Salisbury, Geoff Barrow
Distribuzione
01 Distribution
Nazionalità
Usa, Gran Bretagna
Anno
2024

Presentazione e critica

In una New York a corto di acqua e dove la guerra è arrivata in forma di terrorismo, con attentati kamikaze, il giornalista Joel e la fotografa Lee hanno deciso che è rimasta una sola storia da raccontare: intervistare il Presidente degli Stati Uniti, da tempo trinceratosi a Washington mentre dilaga una feroce Guerra Civile. Partono così per un viaggio verso la capitale, cui si aggregano l’anziano e claudicante giornalista Sammy e la giovane fotografa Jessie, che vede in Lee un modello da seguire. Contro quel che resta del governo si muovono le truppe congiunte Occidentali di Texas e California, ma la regione che i giornalisti attraverseranno nel loro viaggio non è fatta di battaglie campali tra schieramenti ed è invece preda di un caos di microconflitti e atrocità.

 

Il film più provocatorio dell’anno, e il più costoso mai prodotto da A24, non offre spiegazioni bensì scuote dispiegando un violentissimo conflitto, ambientato in America ma rivolto più in generale al degrado della Democrazia.

Il regista Alex Garland ha infatti dichiarato che se negli Stati Uniti certe cose sono esacerbate, per esempio dall’onnipresenza delle armi da fuoco, ci sono guerre civili che sono state combattute a colpi di machete e hanno comunque fatto decine di migliaia di morti. Garland dice che avrebbe potuto ambientare il film pure nella sua Inghilterra o in qualsiasi altra democrazia, perché alla vera origine di questa Civil War c’è la demonizzazione dell’avversario politico, l’assunzione di entrambe le parti di una posizione di presunta superiorità etica che squalifica la parte avversa e impedisce ogni confronto, allargando sempre più le divisioni.

 

Anche per questo i suoi protagonisti hanno il solo punto di vista lucido e costruttivo: la neutralità. Imparziali fino all’estremo, si ribellano allo stato delle cose documentandolo senza sconti, anche negli orrori più truci. Drogati di adrenalina o anestetizzati alle emozioni dalle brutalità cui hanno assistito, attraversano un’America insidiosa e a tratti surreale, dove borghi tranquilli sono protetti da cecchini sui tetti e dove militari scavano fosse comuni.

Garland inizia il film in medias res, senza cartelli esplicativi né dialoghi riassuntivi per il beneficio degli spettatori: ai protagonisti è chiaro quali sono le parti in campo e tanto gli basta. Questo radicale rifiuto di didascalismi si traduce in una straordinaria densità: gli eventi si susseguono rapidi, numerosi e sempre più violenti, fino a un assalto finale a Washington tanto spaventoso quanto teso ed efficace dal punto di vista spettacolare. Il crescendo di morte e distruzione appare ineluttabile e troverà una secca e amarissima conclusione, tutt’altro che rassicurante.

L’assenza di spiegazioni impedisce del resto di disinnescare questo incubo con la logica e anche quel poco che ci viene detto basta del resto a scombinare i nostri preconcetti. La California liberal e il Texas conservatore sono qui alleati, contro un Presidente “fascista” che ha mantenuto il potere per un terzo mandato, ha sciolto l’FBI e ha approvato bombardamenti con droni sul suolo americano. L’odio verso di lui unisce così Stati anche tradizionalmente avversi, in un caotico precipitare degli eventi che evita di essere una banale e strumentalizzabile rappresentazione delle divisioni dell’America oggi.

Spesso è persino impossibile dire chi stia da una parte e chi dall’altra e i protagonisti del resto non lo chiedono quasi mai e quando lo fanno non ricevono risposte, oppure vengono coperte dalla musica, come quando Joel chiacchiera e ride con i sopravvissuti a una sparatoria, mentre Jessie fotografa un’esecuzione. Il loro obiettivo è fare l’ultimo scoop o lo scatto definitivo, quello che rimarrà nella memoria collettiva, il loro operare è un misto di necessario cinismo e folle coraggio, di cui Garland non nasconde i paradossi.

Anzi gli inserti fotografici sono la principale marca stilistica del film, dove il flusso frenetico dell’azione è spesso spezzato da immagini statiche, a volte in bianco e nero, di uno o due secondi di durata e senza audio che non sia il suono di uno scatto di macchina fotografica. I suoi giornalisti, con la loro facciata di neutralità – che si infrange però a volte in grida mute e disperate – sono l’unica risposta possibile alla fine della democrazia, sono i testimoni che ci ammoniscono riguardo il baratro a cui ci avviciniamo. È attraverso di loro che Garland firma un’opera dal taglio documentaristico, specchio di un mondo distorto ma in cui è fin troppo facile riconoscere il presente.

 

 

 

Mymovies

 

Il cinema è uno strumento privilegiato per rielaborare le paure del nostro tempo. Non è un caso che tra i generi più fortunati di questi anni ci sia l’horror: permette di accarezzare il brivido, restando comodamente seduti sulla propria poltrona. Da un’attualità schizofrenica è nata la distopia. Le tendenze si mescolano alla finzione, cercando di esorcizzare un futuro che rischia di distruggerci. Il regista Alex Garland si muove tra verità e incubo, flirta con la fantascienza e indaga le contraddizioni della natura umana.

Civil War è un progetto ambizioso, che si interroga sul ruolo delle immagini oggi. In un futuro molto vicino a noi, gli Stati Uniti sono dilaniati da un conflitto interno. Il nemico è l’inquilino della Casa Bianca (il riferimento è a Trump?), che manipola l’informazione e fucila i giornalisti, oltre a massacrare i civili. Un improbabile quartetto, capitanato da una coraggiosa reporter, sceglie di percorrere più di ottocento miglia per intervistare un’ultima volta colui che siede nello Studio Ovale.

Prende vita un on the road feroce, adrenalinico. La brutalità è onnipresente, il dilemma morale è costante, ed è quello che attanaglia ogni “fotografo”: scattare o proteggersi dalle raffiche dei mitra? Al pubblico la risposta, mentre le metropoli sono in fiamme. Spesso ci si dimentica che Garland ha iniziato come sceneggiatore (e anche produttore) nel 2001 con l’apocalisse zombie di Danny Boyle intitolato 28 giorni dopo. La fine del mondo per il cineasta londinese si unisce alla filosofia, attraverso una via intimista. Distrugge microcosmi con creatività, punta il dito contro il patriarcato, ha una cifra stilistica sofisticata, che si proietta verso i grandi enigmi che hanno sempre accompagnato l’umanità.

 

(…) Anche in Civil War ci si scopre demiurghi mentre ogni certezza collassa. La condanna è al cinismo imperante, alla perdita di sé stessi, e soprattutto alla guerra, che alimenta gli eccessi (l’adrenalina durante l’azione, le risate davanti alla morte), la follia (la sequenza della fossa comune con Jesse Plemons). Gli eroi di Garland spesso vogliono dominare lo spazio, scatenando anche la loro bestialità. È quello che succedeva in Men, in cui la protagonista era perseguitata dalla presenza del suo ex-fidanzato, che si era tolto la vita per il dolore dell’allontanamento. La minaccia scaturiva da un contemporaneo meschino, dal costante sentimento di prevaricazione. La culla per Garland deve essere una “zona aliena”, tarkovskiana, pronta a racchiudere le nostre fragilità. È stato il caso di Annientamento, da noi direttamente su Netflix. I soldati si trovavano immersi in una dimensione sospesa tra Stalker e una storia di Carpenter. Garland, per costruire l’ultima parte, si affidava alla rappresentazione, quasi azzerando i dialoghi. Sembrava di assistere a uno spettacolo teatrale, poi ripreso anche nel successivo, ma meno riuscito, Men.

Il suo cinema ha un fascino inquieto, legato al tema moderno del gender, all’annullamento del maschilismo. La macchina da presa crea demoni, mette in scena l’oscurità, insegue la luce come se fosse un’utopia. Spesso è minimale, ama le inquadrature simmetriche, osa anche da un punto di vista tecnico. Per Civil War, Garland ha utilizzato una cinepresa all’avanguardia: la DJI Ronin 4D, che permette di essere al centro dell’azione, con movimenti più rapidi. Garland ha allargato lo sguardo: gira sempre in esterni, i suoi paladini corrotti attraversano gli Stati per lanciarsi in un’ultima danza infernale. Civil War ha un enorme potenziale, e poteva essere ancora più scioccante. Talvolta gli episodi, le molte tappe, faticano a unirsi tra loro, e la riflessione sul ruolo delle immagini nella nostra società rischia di perire tra i proiettili e le esplosioni. Ma a suo modo Civil War si rivela un film incendiario, che denuncia la violenza a ogni livello. E affonda le mani nella crisi identitaria degli Stati Uniti: che cosa significa essere americani? Non saremo noi a sciogliere il dubbio. Questa volta non serve la fantascienza, e lo scorrere del sangue è imperante. Un passo avanti rispetto a Men, ma Devs resta ancora irraggiungibile (come anche le evoluzioni cromatiche di Annientamento). A Civil War non manca però l’animo spettacolare, in un viaggio denso, pieno di chiaroscuri, in cui l’abisso inghiotte ogni sentimento e il domani è tutt’altro che radioso.

 

Cinema.everyeye