Chi lavora è perduto

Tinto Brass

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Bonifacio B., di quasi 27 anni, si trova verso mezzogiorno in un giorno d'estate a girare per le strade assolate di Venezia. Il caldo, la necessità di ingannare il tempo e quella di prendere una importante decisione lavorativa, lo portano a vivere una confusione di ricordi diversi, pensieri sconnessi e fantasie esaltate.
DATI TECNICI
Regia
Tinto Brass
Interpreti
Sady Rebbot, Pascale Audret, Franco Arcalli, Tino Buazzelli, Piero Vida, Enzo Nigro, Monique Messine, Carletto Chia, Giuseppe Cosentino, Andreina Carli, Gino Cavalieri, Nando Angelini
Durata
90 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Tinto Brass, Franco Arcalli, Giancarlo Fusco
Musiche
Piero Piccioni
Distribuzione
Dear Fox
Nazionalità
Francia, Italia
Anno
1963
Attività

Presentazione e critica

Lo sguardo semi-documentaristico sulla città di Venezia è probabilmente frutto della sua esperienza con gli autori sopracitati (soprattutto Rossellini), mentre la totale libertà della struttura narrativa, costruita tramite un montaggio discontinuo che mescola diverse tecniche di ripresa e diversi piani temporali, deriva dalla lezione appresa dai maestri della Nouvelle Vague (con un diretto omaggio a Godard, di cui si vede una locandina in una breve inquadratura). Ma quello che fece storcere il naso alla critica ed ai censori dell’epoca fu probabilmente l’incredibile naturalezza con cui il protagonista della storia, tale Bonifacio di 27 anni, si trova ad affrontare ogni aspetto della vita: dal sesso alla politica, dalla famiglia al lavoro, ma anche tematiche più serie e controverse come l’aborto; tutto è trattato con piglio satirico.

(…) L’indecisione di un giovane cresciuto con dei valori tradizionali (il padre era un fascista), addestrato a pensare che gli unici obbiettivi della vita siano studiare, trovarsi un impiego e figliare. In questo semplice schema non c’è spazio per l’indecisione, ma è esattamente questo lo stato d’animo di Bonifacio, il quale si chiede se il lavoro fa per lui, se la vita borghese fa per lui. “Basta farsi tanti scrupoli; è ora di farsi furbo” pensa tra se e se. Questo la dice lungo su cosa pensi Brass della società in cui vive: gli schemi sociali ingabbiano l’individuo, portandolo a ragionare come la massa, ma il personaggio del film riesce, con l’ironia, a schernire certi schemi, sottolineandone l’assurdità, o rivelando la falsità di certi comportamenti. Come nella scena del funerale di un suo amico partigiano, dove i presenti non hanno niente di meglio da dire se non frasi di circostanza: “Se ne vanno sempre i migliori”. Oppure quando, alla vista di un prete vicino al canale, immagina di spingerlo in acqua provocando l’ilarità di una comitiva di bambini; ma, come lui stesso si dice, certi scherzi non si fanno, né da bambini né da adulti,
perché ciò risulterebbe oltraggioso. Ma è solo un gioco e Bonifacio non sa spiegarsi il perché di tanta serietà.

La società cerca di spegnere nel protagonista la voglia di vivere, come nel ricordo del servizio di leva, quando venne detto ai nuovi arrivati: “Da ora non siete più uomini”. Nonostante l’umiliazione a Bonifacio scappa da ridere: “…Ma ridere non si può”. La politica ha un ruolo fondamentale nel film, in quanto anche su questo argomento Bonifacio nutre diversi dubbi. Gli amici che lo circondano sono per lo più di sinistra, ma laddove Claudio riesce a far convivere la propria ideologia con un lavoro borghese, Tino impazzisce e viene messo in manicomio dopo essere stato picchiato da un gruppo di fascisti anni prima. I critici all’epoca non sapevano bene se parlare della pellicola come di un’opera anarchica o apolitica. Michelangelo Notariani scrisse su Cinema Nuovo n. 168 del 1964:
Il prepotente peso di una educazione familiare reazionaria e autoritaria, le ambigue imposizioni clericali, la negazione di una autentica e consapevole libertà sessuale, le conseguenze tragicomiche della decisione di far abortire la propria ragazza, le assurdità del servizio militare, il disgregarsi delle amicizie e della solidarietà giovanili, l’incapacità (o l’esclusione) dei militanti partigiani e sindacali a inserirsi in un deteriore “nuovo corso” (…) Brass ha tentato di includere, di proporre e di risolvere tutto questo in una esplosione di sensazioni soggettive alternate a immagini semi – documentaristiche, in un lungo e snervante monologo che si visualizza ricorrendo a ogni tecnica immaginabili
La conclusione del film non porta realmente ad una svolta, ma sovrappone sempre più fantasie del protagonista che s’immagina mentre svolge diversi impieghi, finché una visione mistica costringe Bonifacio a guardare in faccia alla realtà: l’immagine di Gesù sulla facciata di una chiesa lo ammonisce dicendogli che ormai non è più un bambino, ma un uomo “…Un òmo che no ha voglia de laoràr”. E a questo punto egli non può fare altro che accettare il fatto che, come tutti gli hanno sempre detto, “Il lavoro nobilita l’uomo. C’era anche scritto sul cancello di Auschwitz che il lavoro rende liberi”.

Locchiodelcineasta