C’era una volta in Bhutan

Pawo Choyning Dorji

Image
Nel 2006 il Regno del Bhutan ha dato inizio alla sua transizione in favore della democrazia, segnando a una vera e propria svolta storica per il Paese. Questo dramma corale segue monaci, abitanti dei villaggi e delle città e le avventure di uno sfortunato straniero in questa democrazia neonata, che non ha mai conosciuto un'elezione e deve educare il popolo al voto. Un popolo, quello del Bhutan, in cui le persone non sanno neppure la loro data di nascita e si ritrovano ora a dover essere censite.
DATI TECNICI
Regia
Pawo Choyning Dorji
Interpreti
Tandin Wangchuk, Deki Lhamo, Pema Zangmo Sherpa, Tandin Sonam, Harry Einhorn, Choeying Jatsho, Tandin Phubz, Yuphel Lhendup Selden, Kelsang Choejay
Genere
Commedia
Sceneggiatura
Pawo Choyning Dorji
Fotografia
Jigme Tenzing
Montaggio
Gu Hsiao-Yun
Musiche
Frederic Alvarez
Distribuzione
Officine UBU
Nazionalità
Bhutan, Taiwan, Francia, USA
Anno
2023
Attività

Presentazione e critica

Bhutan 2006. Il re rinuncia a parte dei suoi poteri decidendo di indire per la prima volta elezioni democratiche. In un Paese in cui la comunicazione passa ancora attraverso la radio e i televisori con tubo catodico, funzionari statali vengono mandati nei villaggi per spiegare direttamente le dinamiche elettorali. In uno di essi un Lama decide di dotarsi di almeno un fucile per ‘mettere le cose a posto’.

Al suo secondo film Pawo Choyning Dorji affronta le tematiche legate al suo popolo con uno stile diverso rispetto a Lunana – Il villaggio alla fine del mondo.

Dopo aver affrontato, con uno stile semi-documentaristico, i temi legati all’educazione e al mondo rurale il regista torna ad occuparsi della propria terra volgendo lo sguardo ad un passato prossimo e ad un evento che hanno avuto un grande significato sia sul piano politico che su quello sociale. Perché le elezioni, concesse da una monarchia che ha deciso di diventare costituzionale con le due elezioni per le due Camere nel dicembre 2007 e nel marzo 2008, hanno costituito davvero un cambiamento per molti inimmaginabile.

Dal punto di vista occidentale un corpo elettorale formato da unità familiari e non da individui non può costituire un esempio di democrazia completamente attuata ma il film riesce ad offrire, con semplicità ma anche con sguardo acuto, la lettura di quali fossero le aspettative della monarchia e quanta confusione regnasse tra i sudditi. La necessità di dover organizzare una simulazione della tornata elettorale offre l’occasione per creare un clima da commedia in cui gli inviati del governo inventano tre partiti utilizzando delle ripartizioni generiche ma, soprattutto, dei colori. Con le conseguenze che si potranno apprezzare.
C’è poi, a fare da fil rouge, la richiesta del Lama locale di poter avere delle armi con lo scopo dichiarato di mettere le cose a posto. L’ambiguità voluta dell’enunciato consente di creare un’aspettativa che opera su punti di vista e/o pregiudizi di chi guarda nei confronti di una forma di spiritualità che, come Dorji ricorda, nelle campagne più che nelle città costituisce ancora uno stile di vita in cui i monaci sono visti come l’incarnazione degli insegnamenti del Buddha e pertanto vengono venerati e rispettati.

La presenza dell’americano, collezionista ma anche trafficante d’armi, offre l’occasione per mettere a confronto due mondi che si trovano agli antipodi. Nell’uno è ancora viva una forma di innocenza che il film mette in rilievo dandole la giusta dimensione senza mai ridicolizzarla (anche quando altri ne avrebbero magari colto l’opportunità). Nell’altro un’avidità malcelata. Un popolo che, mentre il mondo entrava nella galassia digitale, sceglieva di non introdurre né i telefoni cellulari né internet per salvaguardare il proprio stile di vita potrebbe essere rappresentato con modalità quasi favolistiche, come il titolo italiano sembrerebbe suggerire. Non è quello che accade qui. Ci viene semmai chiesto di interrogarci, senza che nessuno pretenda di farci la morale, su scelte e valori molto differenti dai nostri.

Mymovies

Insieme all’affascinante The Hypnosis di Ernst De Greer, C’era una volta in Bhutan di Pawo Choyning Dorji è tra i film in concorso alla Festa del Cinema di Roma premiati con uno dei riconoscimenti speciali della giuria. Il regista di Lunana: Il villaggio alla fine del mondo torna alla scrittura e alla regia di un progetto cinematografico dopo quattro anni di assenza e una difficile pandemia, questa volta per raccontare un episodio tanto caro al suo paese, il Bhutan, regno buddhista dell’Himalaya orientale. Un racconto forte di una poetica cinematografica in grado di muoversi con sensibilità fiabesche tra dramma e commedia, proponendo al grande pubblico una storia vera (per la maggior parte) di equivoci umani e spirituali e di transizioni di governo che ha dell’incredibile. Un titolo piacevole e bilanciato in ogni suo aspetto da cui emerge un grande insegnamento sociale e culturale, soprattutto in termini democratici, senza per questo risultare lezioso o addirittura retorico.

 

Sulle splendide note compositive di Frederic Alvarez, il film si apre su un panorama montano immersivo e stupefacente. Il cielo terso, il verde delle alture, i prati immensi sommersi dal tenue rosa dei fiori appena sbocciati. Un paesaggio d’altura che lascia senza fiato, anche se un monaco tibetano lo sta risalendo senza troppa fatica. Porta con sé una bombola di gas ed è diretto all’eremo del suo Lama: la sua fede spirituale è incrollabile e le faccende da sbrigare sono molte. Siamo nel 2006 e il sovrano del Regno del Bhutan ha appena deciso di abdicare per lasciare che il paese si apra definitivamente alla democrazia. Il popolo lo considera quasi un regalo da parte del regnante, nonostante vi siano molti cittadini poco convinti della scelta. Democrazia significa elezioni, cosa non facile in un piccolo regno orientale vissuto da sempre sotto l’egida di una dinastia sovrana.

 

Il modo più semplice per insegnare al popolo come votare è quello di organizzare delle finte elezioni in tutto il paese, così da impartire i fondamenti democratici base ai cittadini e il modus operandi per esprimere la propria opinione e il loro diritto. In questo contesto dinamico ed effervescente il Lama della piccola cittadina di Ura fa una richiesta molto particolare al suo monaco-faccendiere: procurargli due armi da fuoco. Non importa come, non importa di che tipo: deve solo fargliele avere in tempo per le elezioni, distanti appena cinque giorni. Senza troppe domande e confidando nelle buone intenzioni del Lama, il monaco parte per questa missione durante la quale incrocerà il suo percorso con un uomo bisognoso di soldi, un cittadino americano giunto nel Bhutan per acquistare un reperto storico di grande valore e la funzionaria governativa inviata ad Ura per gestire la simulazione democratica.

 

Appassiona e diverte, C’era una volta in Bhutan, seguendo il tracciato della vera storia con immersione fiabesca e qualche spunto – più di uno – vicino alla commedia degli equivoci. C’è una grammatica dell’immagine delicata e precisa dietro la regia di Dorji, qui alla sua seconda esperienza autoriale e già rodatissimo, forte di una visione cristallina e di un’ideale stilistico che abbraccia popolare e indipendente, eleganza e commerciale, spostandosi senza troppe soluzioni di continuità da oriente a occidente e inglobando ispirazioni artistiche più o meno universali. Da unico firmatario della sceneggiatura, l’autore vuole entrare nel vivo della transizione democratica e raccontare i paradossi (a volte assurdi, altri esilaranti) di un paese per nulla abituato alla scelta e poco aperto al capitalismo. Un territorio del tutto inesplorato dove consegnare il potere direttamente in mano al popolo e successivamente a rappresentanti eletti, dove è soprattutto il senso di responsabilità e dovere civile a farsi forte al di là di ogni dubbio, coadiuvato dall’emozione – unica – di poter affermare la propria voce e dalla curiosità di capire cosa riserverà un futuro tanto diverso.

 

Questione di fede in chiave politica e spirituale, considerando poi l’utilizzo effettivo delle armi richieste dal Lama. Ma è interessante anche il modo in cui C’era una volta in Bhutan parli un linguaggio simile a C’è ancora domani di Paola Cortellesi, seppure in forma differente, con scopi e tempi dissimili. Il punto d’incontro è nel valore di una voce, nell’espressione democraticamente riconosciuta del poter scegliere il proprio deputato e portavoce preferito, dando appoggio a quelle battaglie (sociali, umanitarie o economiche che siano) che sono anche le nostre, in cui crediamo e per cui possiamo lottare – a volte – mettendo solo una croce su di un foglio. E da lì poter iniziare a sperare in un futuro più radioso, seppellendo magari le più crudeli divergenze e aprendoci faticosamente ma con fiducia al domani. Il monaco è una metafora. Le armi pure. Quello che resta è un paese, i suoi abitanti e la volontà di migliorare un giorno dopo l’altro, credendo in ciò che verrà.

 

Movieplayer