Gianni Amelio
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
Campo di battaglia, liberamente ispirato al romanzo “La sfida” di Carlo Patriarca, mette a confronto due morali. Quella di Stefano che “non festeggia i perdenti” e disprezza i “vigliacchi” intenti a togliere posti letto e assistenza ai “valorosi” lasciando “gli altri a morire per loro”, così che “a fare l’Italia rimarranno solo i furbi”; e quella di Giulio, che voleva fare il biologo ricercatore e finisce per essere soprannominato dai pazienti “La mano santa”, perché “strappa i feriti ad una guerra ingiusta” e si rifiuta di “obbedire alle circostanze”. In mezzo Anna ascolta entrambi, ritenendo “la guerra un dovere e combattere necessario”, ma esercitando una pietas istintiva verso quei soldati poveri e giovanissimi che si esprimono solo in dialetto e si sono ritrovati in mezzo ad un conflitto che non sembra riguardarli.
Gianni Amelio e Alberto Taraglio costruiscono una sceneggiatura minimalista all’interno di una regia (sempre di Amelio) sontuosa coadiuvata dalla bella fotografia di Luan Amelio Ujkaj, ma in qualche modo diluiscono lungo la durata del film la tensione narrativa e la potenza di un messaggio che contempla le ragioni di tutti, e che non può non riportare alla memoria, nella seconda parte, la recente pandemia. Nessuno di questi due medici agisce per il proprio tornaconto, entrambi rivelano una genuina nobiltà d’animo che però segue percorsi opposti, ed entrambi agiscono in prima persona, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni. Di qui un conflitto non manicheo che restituisce complessità alla storia, al contrario dell’appiattimento mediatico avvenuto durante il Covid. Questo però crea una sorta di catenaccio che riduce l’azione al minimo, e il conflitto fra i due amici non esplode mai, limitandosi (si fa per dire) a seguire percorsi paralleli. Anche la figura di Anna resta a metà del guado, il che è coerente con il suo personaggio, ma non consente un adeguato sviluppo drammaturgico.
Tuttavia Campo di battaglia è una profonda riflessione su come il contesto di guerra estremizzi i caratteri e stritoli le coscienze, costringendole ad una disumanità per la quale non sarebbero naturalmente portati, e verso la quale non dovrebbero essere spinti.
(…) Una guerra non si combatte solo in trincea, ma su più fronti. Uno di questi è rappresentato dagli ospedali in cui i feriti in battaglia vengono raccolti, curati, valutati nell’ottica di rispedirli o meno sul campo. Da qui parte Campo di battaglia, mostrandoci il lavoro di due medici che si occupano dei feriti in arrivo verso il finire della Prima Guerra Mondiale. Sono Stefano e Giulio, amici d’infanzia ma con un approccio differente al lavoro: il primo è di provenienza altoborghese e si pone in modo rigido nei confronti degli autolesionisti che farebbero di tutto per non tornare al fronte; il secondo è invece più comprensivo verso questi individui feriti nel corpo e soprattutto nello spirito, si sente in difficoltà alla vista del sangue e preferirebbe un lavoro più basato sulla ricerca.
Il loro lavoro è segnato da alcuni pazienti che peggiorano misteriosamente, facendo sorgere il sospetto di un sabotaggio anche attira l’attenzione anche dell’infermiera Anna. L’attitudine di Giulio per la ricerca, intanto, diventa più preponderante quando sul fronte si inizia a diffondere un’infezione che inizia a uccidere quanto, se non più, delle armi del nemico e che comincia a diffondersi anche tra i civili suscitando notevole preoccupazione. Come ci si occupa dei feriti di guerra? Ci si preoccupa solo delle lesioni dei loro corpi, rispedendoli al fronte non appena minimamente abili al conflitto? O è necessario guardare gli individui sotto quelle ferite, agli spiriti ugualmente segnati dagli orrori della battaglia? Diversi approcci e punti di vista che Gianni Amelio mette in scena nella prima parte di Campo di battaglia, che ci accoglie in questo contesto di guerra senza la guerra vera e propria, che pianta semi per ragionamenti interessanti e preziosi (…).
“Qui non muore nessuno”. È una frase che in Campo di battaglia di Gianni Amelio viene ripetuta due volte. È il manifesto programmatico di un film che dichiara apertamente di volersi distaccare dalla realtà, per accarezzare l’utopia che tutti desideriamo. Esistono guerre in cui non muore nessuno? Esistono conflitti in cui sono più i salvati dei sommersi? La risposta la conosciamo tutti.
Amelio, con lucidità, si fa portatore di un desiderio impossibile, dialogando con il passato e guardando a un presente sempre più oscuro. Gira un film non di guerra, ma sulla guerra. Il titolo è la chiave di lettura, come se fosse Soldati di Ungaretti. Di quei versi Amelio condivide la Grande Guerra e il numero di morti che ormai non si può più contare. Ma non siamo in trincea. Siamo in un ospedale militare dove si curano i malati gravi con lo scopo di rimandarli al fronte “col fucile in mano”. L’ufficiale medico Stefano è ossessionato dagli autolesionisti, quelli che si procurano da soli le ferite, li odia, li considera vigliacchi della specie peggiore. Ma qualcosa di strano accade nelle corsie: alcuni feriti, invece di guarire, si aggravano. C’è qualcuno che di notte manipola i sintomi dei disperati per farli tornare a casa, perché non si alimenti lo scontro, perché i soldati, quasi dei ragazzini, non diventino cavie di una morte sicura. Intanto l’influenza cosiddetta spagnola esplode sempre più incontenibile, attacca i militari e i civili, si diffonde nella città…
Campo si battaglia lega due eventi in un’unica storia tragica, dove i soldati fanno i conti non solo con le lesioni da arma da fuoco ma con un morbo sconosciuto che le alte autorità vogliono tenere segreto. Qui Amelio scava davvero in profondità, si interroga su quale sia il mistero che si annida dietro a ogni tipo di violenza. Anche la malattia incurabile diventa una guerra. Il “campo di battaglia” sono i letti d’ospedale, i laboratori in cui si cerca una cura, i corridoi del potere in cui generali che inseguono orizzonti di gloria e se ne infischiano di chi ci lascia la pelle. Amelio va in controtendenza. Invece di raccontare bombe e cannoni, realizza un film serrato sui personaggi, medici e militari, con rigore estremo, dove brilla l’uso della macchina a mano. Sembra di assistere a lunghi carrelli, ma in verità la cinepresa è libera di muoversi sotto lo sguardo attento di un maestro, come se fosse un occhio che scruta da vicino l’orrore e si ritrae perché ne ha paura. Bellissima la sequenza iniziale: un uomo in divisa fruga nella notte tra i corpi cercando di derubarli delle miserie che portano in tasca. Tra i cumuli di cadaveri spunta una mano che chiede aiuto. Stacco. È giorno, si parte con la risata del sopravvissuto che mostra agli altri quella mano che l’ha salvato. Ma in tutto il film c’è un gioco di opposti, una sorpresa in cima a ogni sequenza. Senza essere un film di genere, Campo di battaglia è costruito su una suspense continua, sul desiderio insopprimibile di giustizia tanto caro ad Amelio fin da Colpire al cuore o Porte aperte.
Lo scontro si fa incontro, e brillano anche i tratti distintivi del suo cinema: la genitorialità perduta e putativa, i fantasmi di un tempo lontano che diventano attualità, l’amicizia stretta e l’amore non dichiarato. Non sorprende la sua forza sicura nel dirigere gli attori (impeccabile l’interpretazione di Alessandro Borghi, sorprendenti Gabriel Montesi e Federica Rosellini). La parola svetta, l’occhio rivendica una sua moralità in un’epopea carica di passione, indomita nel suo ritmo classico. Un film che invita all’ascolto, alla negazione dell’indifferenza. Campo di battaglia è l’ode toccante a un cinema che vuole essere di tendenza, potente nel suo incedere, che sa districarsi con maestria tra illusione e verità. In concorso alla Mostra di Venezia.