Berlinguer. La grande ambizione

Andrea Segre

Image
Quando una via sembra a tutti impossibile, è necessario fermarsi? Non l’ha fatto Enrico Berlinguer, segretario negli anni Settanta del più importante partito comunista del mondo occidentale, con oltre un milione settecentomila iscritti e più di dodici milioni di elettori, uniti dalla grande ambizione di realizzare il socialismo nella democrazia. Sfidando i dogmi della guerra fredda e di un mondo diviso in due, Berlinguer e il PCI tentarono per cinque anni di andare al governo, aprendo a una stagione di dialogo con la Democrazia Cristiana e arrivando a un passo dal cambiare la storia. Dal 1973, quando sfuggì a Sofia a un attentato dei servizi bulgari, attraverso le campagne elettorali e i viaggi a Mosca, le copertine dei giornali di tutto il mondo e le rischiose relazioni con il potere, fino all’assassinio nel 1978 del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro: la storia di un uomo e di un popolo per cui vita e politica, privato e collettivo, erano indissolubilmente legati.
DATI TECNICI
Regia
Andrea Segre
Interpreti
Elio Germano, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Stefano Abbati, Francesco Acquaroli, Paolo Calabresi, Pierluigi Corallo, Nikolay Danchev, Svetoslav Dobrev, Luca Lazzareschi, Lucio Patane', Andrea Pennacchi, Elena Radonicich, Fabrizia Sacchi, Giorgio Tirabassi
Durata
123 min.
Genere
Biografico
Sceneggiatura
Andrea Segre, Marco Pettenello
Distribuzione
Lucky Red
Nazionalità
Italia
Anno
2024

Presentazione e critica

Primi anni Settanta. Enrico Berlinguer assiste al tramonto dell’ideologia di Salvador Allende e delle speranze del popolo cileno, soffocate dal regime di Augusto Pinochet. Questo rafforza ulteriormente in lui la convinzione di trovare una via democratica al Socialismo in Italia, al netto delle ingerenze statunitensi. Non lo ferma nemmeno l’attentato di cui è vittima in Bulgaria: la sua idea è quella di “trasformare l’intera struttura economica e sociale” del Paese, ponendo fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo – in particolare quello dei datori di lavoro sui lavoratori. Il Partito Comunista Italiano del quale è segretario, anche grazie al suo carisma di leader, cresce in percentuale nei sondaggi e alle urne, ma Berlinguer sa di non poter accedere al governo se non attraverso un’alleanza fra le forze popolari antifasciste, ovvero quelle comuniste, socialiste e cattolico-progressiste, unite verso “un’orizzonte chiaro di stabilità”. Ma l’idea del compromesso storico segnerà la fine dell’ascesa alla gestione della cosa pubblica del PCI e determinerà il tragico destino di Aldo Moro.

In Berlinguer – La grande ambizione Andrea Segre non si limita a raccontare alcuni anni cruciali nella vita personale e politica del Segretario del Partito Comunista Italiano finito persino sulla copertina di Time. Segre non crea un semplice biopic, ma dipinge con pennellate decise il ritratto di una “democrazia zoppa e bloccata”, ieri come oggi gravata dalle influenze straniere, e mai abbastanza coraggiosa nel portare avanti una vera evoluzione socioeconomica. Allo stesso modo il suo film delinea con precisione i limiti della Sinistra italiana anni ’70, soggetta allo scrutinio di Mosca e alla crisi del capitalismo mondiale. “Se vinciamo, cosa ci lasceranno fare?” è la domanda che aleggia persino su un eventuale vittoria comunista. “Questo è il vostro momento”, dice Andreotti a Berlinguer, ma i per comunisti quel momento non arriverà, e dopo la morte di Moro il Paese “scivolerà nel buio”. Ed è tragicamente ironico che l’unico momento che ha visto i politici italiani allineati e compatti è quello in cui hanno deciso unanimemente di non trattare con i terroristi per il rilascio del politico prigioniero.

In Berlinguer – La grande ambizione c’è una fetta consistente della Storia italiana: la strage di Brescia, il petrolchimico di Ravenna (con l’eco dell’omicidio Mattei), Brezhnev (interpretato da un vero sosia) che cautela Berlinguer contro la possibilità di allearsi alle forze democristiane, il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, il sessismo malcelato dei militanti di Sinistra, l’attentato delle Brigate Rosse a Francesco Coco, le intercettazioni telefoniche dei servizi segreti e naturalmente l’omicidio Moro come vulnus dal quale l’Italia, e Berlinguer, non si riprenderanno. Enrico, che da piccolo interpretava Robespierre, da grande – nella lettura di Segre – detesterà ogni tipo di divisione, cercherà di smarcare il suo Partito dall’Unione Sovietica inseguendo l’ideale di eurocomunismo che l’avvocato Agnelli, e Confindustria con lui, vedevano come il Male assoluto, condannerà ogni violenza estremista in Italia e la persecuzione politica dei dissidenti nell’URSS, inneggerà alla “realizzazione piena di tutte le libertà dell’individuo, tranne quella di sfruttare gli altri”, e preferirà la collaborazione alla competizione, perseguendo un principio di solidarietà che è un monito al presente. Del resto anche i suoi avvertimenti nei primi anni Settanta contro l’inevitabilità di una crisi strutturale del capitalismo globale danno prova della lungimiranza della sua visione politica. Lo stile di ripresa è documentaristico, arricchito da materiali d’archivio, e il cast, capitanato da un Elio Germano che si trasforma in Berlinguer davanti ai nostri occhi, fa gara di bravura nel riprodurre il pantheon politico dell’epoca: su tutti svetta Paolo Pierobon, che in un paio di scene inchioda Giulio Andreotti al suo ruolo temibile e ridicolo. La regia di Segre e la sceneggiatura, cofirmata con Marco Pettenello, sono asciutte e rigorose come lo era Berlinguer, e tanto il regista quanto il suo prim’attore mirano a rendere giustizia ad un personaggio verso cui provano ammirazione e rispetto. Il montaggio di Jacopo Quadri e le musiche evocative di Iosonouncane, pseudonimo del cantautore sardo Jacopo Incani, tengono alta la tensione e sottolineano opportunamente il pathos dell’intera vicenda.

La grande ambizione del titolo non è un esercizio narcisistico ma lo sforzo di elevare un’intera comunità, compiuto da un uomo per cui “potere” era un verbo, non un sostantivo egoriferito. La sua lotta contro “la degradazione della persona umana a scopo produttivo” e contro “la logica dei meccanismi automatici” ci fa desiderare oggi un politico di altrettanta lucidità e levatura istituzionale. Il Berlinguer di Segre non chiede a nessuno di fare ciò per cui lui sarebbe pronto a sacrificarsi per la ragion di Stato: compreso se si fosse trovato al posto di Moro. Berlinguer sognava una politica “non da utopisti, estremisti, schematici o opportunisti”. Soprattutto, desiderava porsi alla guida di un partito “che rappresenti tutti i lavoratori italiani”: chi oggi può, o vuole, dire altrettanto?

Quando una via sembra a tutti impossibile, è necessario fermarsi? Non l’ha fatto Enrico Berlinguer, segretario negli anni Settanta del più importante partito comunista del mondo occidentale, con oltre un milione settecentomila iscritti e più di dodici milioni di elettori, uniti dalla grande ambizione di realizzare il socialismo nella democrazia. Sfidando i dogmi della guerra fredda e di un mondo diviso in due, Berlinguer e il PCI tentarono per cinque anni di andare al governo, aprendo a una stagione di dialogo con la Democrazia Cristiana e arrivando a un passo dal cambiare la storia. Dal 1973, quando sfuggì a Sofia a un attentato dei servizi bulgari, attraverso le campagne elettorali e i viaggi a Mosca, le copertine dei giornali di tutto il mondo e le rischiose relazioni con il potere, fino all’assassinio nel 1978 del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro: la storia di un uomo e di un popolo per cui vita e politica, privato e collettivo, erano indissolubilmente legati.

 

Movieplayer

C’è una scena che dice molto di Berlinguer. La grande ambizione (film d’apertura della XIX Festa del Cinema di Roma; il titolo arriva da Gramsci: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”). Il segretario è a casa, sta preparando un discorso, seduto alla scrivania posizionata all’angolo del salotto: il momento è delicato, il progetto dell’eurocomunismo impone delle scelte radicali (la rinuncia ai fondi straordinari elargiti dall’Unione Sovietica), il compromesso storico è percepita come una proposta troppo ardita, i russi non approvano, gli americani sono incuriositi, i democristiani temporeggiano. A un certo punto alla voce fuori campo di Berlinguer si accavallano quelle in campo dei figli: chiacchierano, scherzano, forse bisticciano.

Nel quotidiano politico irrompe il lessico famigliare, il militante completamente assorbito dalla missione che convive nello stesso corpo – irrequieto nei movimenti, educato alla ginnastica, vestito con giacche troppo larghe – con il padre ossessionato dall’assenza in casa, l’orfano che beve sempre quel latte somministrato da ragazzo alla mamma morente con l’utopia di guarirla. Non è un caso che l’evento che ci fa capire quanto Berlinguer sia scomodo per i sovietici avvenga proprio quando l’interprete, in auto, gli pone una domanda personale, addirittura relativa al film preferito: il segretario fa un sorriso, quasi scoprendo in quell’attimo stesso di non avere risposta a un quesito che non si è mai posto davvero (la proverbiale timidezza affiora nell’evidenza di come quest’uomo sia così divorato dalla passione politica da non poter prestare attenzione ad altro), ma non ha il tempo di rispondere.

È così fluido il modo con cui Andrea Segre si muove tra privato e pubblico (decisivo il contributo di Benoît Dervaux, direttore della fotografia per i Dardenne che qui gioca sulla grana e su una leggera desaturazione), tra interni che dicono tutto di chi li vive (il rigoroso ma vivo comitato centrale di Botteghe Oscure, l’abitazione di gusto ma senza concessioni al consumismo, il Kremlino che quasi diventa un tribunale) ed esterni che raccontano il rapporto con la collettività (i comizi tra le baracche di una borgata, le Feste dell’Unità, i pranzi nelle case del popolo), il mettersi alla pari con i militanti (gli incontri in fabbrica), gli incontri furtivi con l’avversario (con la preoccupazione che la scorta faccia troppo tardi).

Pur restituendo un pezzo della vita di Berlinguer – si copre il periodo compreso tra il 1973, anno dell’attentato che subì a Sofia, al 1978, nei giorni del sequestro Moro – quella di Segre (che ha scritto il film con Marco Pettenello) è una biografia completa, limpida senza rinunciare alla complessità di un personaggio tanto iconico quanto ordinario, che sfida l’agiografia e la retorica e abbraccia lo scandaglio umanista e la dimensione emotiva, mettendo al centro l’assillo dell’unità e la sconfitta di un progetto. C’è un Elio Germano meraviglioso e naturalmente carismatico (“Il capitalismo si basa sulla competizione, il socialismo sulla collaborazione”: difficile dirlo meglio e infatti lo dice ai figli durante un picnic) che all’imitazione preferisce l’evocazione mimetica (l’accento sardo non è caricaturale, per dirne una). Ed è bellissimo nonché inedito lo spaccato della vita di partito, tra ex partigiani nostalgici (il Pecchioli di Paolo Calabresi) e compagni veraci (il Menichelli di Giorgio Tirabassi, memorabile), asprezze (la sostituzione di Cossutta, l’offerta irrifiutabile a Ingrao) e gioie (i dati elettorali raccolti prima del Ministero), ma restano impresse le apparizioni del clamoroso Paolo Pierobon come Andreotti.

Segre fa anche uno straordinario utilizzo dei materiali di repertorio (il montaggio sulle note di Eppure soffia di Pierangelo Bertoli), si serve con intelligenza della radicale e metafisica colonna sonora di Iosonouncane e riesce nell’impresa di un film alto e popolare, commovente e libero, nostalgico e vivissimo.