Maria Schrader
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Presentazione e critica
Il 5 ottobre del 2017, il “New York Times” pubblica l’inchiesta di Jodi Kantor e Megan Twohey sui crimini sessuali di Harvey Weinstein, produttore cinematografico e predatore seriale, riconosciuto colpevole nel 2020 e condannato a ventitré anni di prigione. Per tre decenni il fondatore della Miramax ha abusato di attrici e assistenti, decidendo dei loro destini come un volgare aguzzino. Disposte ad andare alla fine del mondo per una testimonianza, le due giornaliste, campionesse del multitasking, ricostruiscono la strategia impiegata da Weinstein per coprire i suoi abusi: ridurre le sue vittime al silenzio a colpi di grossi assegni e inestricabili accordi di riservatezza. Precedendo di qualche giorno il reportage di Ronan Farrow sul “The New Yorker”, Kantor e Twohey scuotono Hollywood e cambiano il mondo. Se vogliamo trovare l’epicentro del sisma #MeToo, il punto di partenza fattuale è l’inchiesta su Harvey Weinstein pubblicata nel 2017 dal “New York Times”. Le conseguenze di quell’articolo, solido, argomentato e concreto sono note a tutti: miccia, scia di polvere, esplosione a catena, processo. Ma è un approccio meno sensazionalistico quello assunto da Anche io, il suo rigore è il più fedele omaggio all’efficienza clinica di due reporter tenaci. Scritto da Rebecca Lenkiewicz e co-prodotto da Dede Gardner (e Brad Pitt), il film di Maria Schrader si inscrive in un genere molto frequentato e per sua natura anti-spettacolare. Come in Tutti gli uomini del presidente, Il caso Spotlight o più recentemente The Post, l’azione è ridotta all’essenza: telefonare, prendere appunti, discutere intorno a un tavolo (in riunione, al ristorante, al banco di un pub…), conversare coi testimoni, bussare a porte che restano sovente chiuse. Del resto il giornalismo non è glamour. Tra dramma e thriller, Anche io rinnova i passaggi obbligati del genere e li coniuga al femminile plurale. Ma se il film di Maria Schrader è così riuscito e potente è soprattutto per la ‘questione’ cinematografica che lo attraversa: come rappresentare sullo schermo la violenza sessuale? L’autrice decide di lasciarla fuori campo o di dribblarla a colpi di ellissi. Il film non mostra mai le aggressioni, gli stupri e nemmeno il volto del loro autore, ripreso di spalle per ammirare lungamente il volto pago e franco di Carey Mulligan. A guardarlo bene Anche io è la risposta ideale a Blonde, variazione libera e avvilente sulla vita di Marilyn Monroe. Diversamente da Andrew Dominik, Maria Schrader fa una scelta morale di messa in scena. Alla complessità dell”allestimento’ preferisce la complessità delle sue eroine, a cui presta ascolto e soccorso con la semplicità di un campo e controcampo. L’abuso resta ‘in attesa’ lungo i corridoi di hotel deserti, la violenza è natura morta (vestiti abbandonati sul pavimento, accappatoi bianchi ‘coricati’ sul letto, collant doppi…) che tormenta, tortura, si nasconde, cova, consuma e finisce un giorno per esplodere, mormorata al telefono e poi finalmente dichiarata e denunciata. Come Grazie a Dio, Anche io è un grande film pudico sulla parola liberata e riparatrice, è un film sulle ferite che produce il silenzio sui volti delle donne che attendono una nuova alba per riconciliarsi con se stesse e riprendere a vivere. Condotto da un tandem prodigioso, Zoe Kazan e Carey Mulligan, Anche io prende alfine la forma di una lotta (c)orale, efficace contro il sistema Weinstein e lontana da qualsiasi caricatura. A Maria Schrader, ‘per far male’, è sufficiente affidarsi alle dichiarazioni autentiche di Harvey Weinstein. L’assenza dell’orco proietta sul film un’ombra di paura su cui fa luce l’inchiesta. E l’inchiesta è la voce contro il silenzio assordante del “sistema”. A New York, metallica e austera, come nei vasti spazi del New York Times Building, la regista isola le donne, per ricordarci la loro solitudine, e ritaglia dei ‘piani di ascolto’, dove nasce la solidarietà e l’intimità. Il suo film è al servizio della parola delle vittime. Parola finalmente ‘scoperta’ grazie a una professione di cui il film rivela il funzionamento e l’importanza. Omaggio vibrante a tutte le cacciatrici di verità, Anche io suscita un’empatia immediata per le sue protagoniste e i loro compagni, che le sostengono, senza ostentazione, assumendo spontaneamente e senza sforzo la loro parte nella quotidianità familiare. Una chiosa d’amore per Ashley Judd che ha parlato quando aveva tutto da perdere. Con determinazione di ferro e rabbia tranquilla interpreta se stessa.
(…) Non è un film prevedibile, ingenuo, o leggero Anche io. È un film potente, che sprigiona la sua forza già partendo dalla semplicità di un titolo composto da un soggetto e un predicato. “Ha detto”, “she said”: è questa la formula magica che scatena nel film della Schrader la potenza di un incantesimo reiterato e pronto a mostrare la realtà dei fatti attraverso testimonianza riprese, ma mai manipolate. “Lei ha detto”, ma soprattutto “lei non ha detto”, perché nel mondo di Weinstein tanto è stato celato, e poco dichiarato. Ci vorranno mani che scrivono, e orecchie che finalmente ascoltano come quelle di Jodi Kantor e Megan Twohey che tutto cambi. Le due reporter si fanno Moire contemporanee pronte a recidere il filo che tiene vivo l’impero di Weinstein, strappando ricordi, e sprazzi di verità occultate da parte di donne che non hanno detto, ammesso, affermato solo perché bruciate dal fuoco degli abusi e dal peso delle minacce. Quella giostrata con cura e attenzione da Maria Schrader è una galleria di momenti presi in prestito dalla Storia, (quella con la S maiuscola) e restituiti con altrettanta onestà di racconto, perché scevri di abbellimenti o virtuosismi narrativi. Nulla è lasciato al caso in Anche io; ogni scelta si fa correlativo emotivo e semantico di non detti e verità pronte a tornare a galla. “Fa molto male gridare mentre nessuno ascolta” e le vittime di un sistema maschilista, egocentrico e narcisista dove molti sanno, toccano, e omettono, sono come pesci sottratti dalle acque immense del proprio oceano, per nuotare sacrificati nello spazio esiguo di un acquario. Ma grazie al lavoro delle due protagoniste queste parole possono essere adesso ascoltate, riprese, usate come martelli pronti a rompere quegli acquari colmi di omertà e minacce. Perché Anche io non è solo un film biografico, ma un’opera di caratura sociale: è un film fatto di racconti senza essere mai verboso; una denuncia che sconfina i limiti del genere per farsi microfono cinematografico pronto a ridare voce a chi ha sentito il peso di una mano sulla bocca per troppo tempo. Quella di Maria Schrader è una regia che si sveste di indiscrezione, o soggettività: è uno sguardo obiettivo, onesto, che si limita a seguire il percorso delle proprie protagoniste, canalizzando l’attenzione verso mondi interiori ignorati, o dimenticati. Le sue inquadrature si fanno filtri, canali di informazioni e testimonianze colte come istantanee su una realtà umana impressa con fare quasi documentaristico. Incapace di interferire tra gli inframezzi di un’operazione compiuta con coraggio da Jodi Kantor e Megan Twohey, la macchina da presa fa di Carey Mulligan, Zoe Kazan, Jennifer Ehle e Samantha Morton non più delle semplici attrici, ma donne, proiezioni cinematografiche di corpi e anime pestate da continui giochi di potere. Non più donne riprese dall’alto, schiacciate dal senso di minaccia esercitato da un produttore che in cambio di successo, pretendeva di toccare e ingurgitare corpi e identità altrui per soddisfare i propri appetiti, le protagoniste di Anche io sono donne perfettamente inquadrate in linea con lo sguardo della regista e, per esteso, dei propri spettatori. Nessun segno di disequilibrio sociale, o di genere, dunque: con la forza della parola e di una verità finalmente riportata alla luce, le vittime vengono poste sullo stesso piano del proprio carnefice. Un’uguaglianza di sguardi che restituisce un’umanità a chi prima ne era stata privata; un’operazione, questa, compiuta dalla Schrader con estremo rispetto nei confronti dei propri protagonisti, svestendo la narrazione di emozioni esacerbate, o retorici sentimentalismi. Per un’opera dedicata alla messa in luce di casi insabbiati, voci bloccate e universi popolati da fantasmi alimentati dalle paure del passato, tutto in Anche io deve essere facilmente leggibile. Lo sguardo neutro, sospeso della regista si fa allora scrittura facilmente comprensibile e accessibile a un numero quanto più ampio ed eterogeneo di spettatori. Lasciando che la portata degli eventi si mostri da sola, senza interferenze, la regista fa un passo indietro, puntando su una visione quanto più documentaristica dell’opera, ma non per questo meno impattante dal punto di vista emotivo, reduplicando quanto compiuto dalle sue reporter. Senza forzature, lascia che le testimonianze facciano capolino, e il dolore venga finalmente esternato, esorcizzato, vendicato. Anche Io non ha nulla di invidiare a The Post, a Zodiac, o a Il caso Spotlight. Ogni raccordo, ogni movimento di camera, vive e si alimenta dei retaggi dei più tradizionali thriller giornalistici, storie in cui la suspense non si ricava dalle azioni, ma dalla profondità del racconto, del dolore delle confessioni, della dinamicità di mani che battono e penne che scrivono. Un universo in cui se le parole mancano, il dolore distrugge, mentre il ricordo tenta di ritornare a galla e investire tutto, bagnando visi pieni di lacrime, e distruggendo case di carta rimaste per troppo tempo a dominare il mondo, oscurando con la propria ombra la verità.