All we imagine as light – Amore a Mumbai

Payal Kapadia

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Grand Prix della giuria al Festival di Cannes, 2024

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A Mumbai la vita quotidiana di Prabha viene turbata quando riceve un regalo inaspettato da suo marito che l’ha abbandonata. La sua giovane compagna di stanza, Anu, cerca invano di trovare un posto in città dove fare l’amore con il suo ragazzo. Finché non decidono di accompagnare una loro amica, costretta a tornare al suo villaggio e alle sue origini, dove scoprono un altro stile di vita e la possibilità di esprimere i loro desideri.
DATI TECNICI
Regia
Payal Kapadia
Interpreti
Kani Kusruti, Divya Prabha, Chhaya Kadam Hridhu Haroon
Durata
110 min
Genere
Drammatico
Sceneggiatura
Payal Kapadia
Fotografia
Ranabir Das
Montaggio
Clément Pinteaux, Jeanne Sarfati
Distribuzione
Europictures
Nazionalità
Francia, India, Olanda, Italia
Anno
2024

Presentazione e critica

C’è un quadro di Klimt, dipinto a inizio ‘900, che si chiama Le tre età della donna: ci è venuto in mente durante la visione di All We Imagine as Light – Amore a Mumbai, film di Payal Kapadia, con cui la regista è tornata al Festival di Cannes dopo aver portato, nel 2021, A Night of Knowing Nothing alla Quinzaine des cinéastes, premiato come miglior documentario. Non è un ritorno come gli altri, quello dell’autrice: questa volta è stata infatti scelta per far parte del concorso principale, segnando una presenza per l’India sulla Croisette che mancava da 30 anni. Un rientro in grande stile, premiato con il Grand Prix dalla giuria presieduta da Greta Gerwig.

Protagoniste del film sono, appunto, tre donne, di età diverse: tutte vivono a Mumbai e lavorano come infermiere. Anu è la più giovane: è sempre in ritardo con il pagamento dell’affitto, è gentile con tutti, anche i dottori, e per questo viene accusata di essere troppo frivola. I genitori le vogliono per forza combinare il matrimonio, ma lei invece ha un fidanzato segreto, di religione differente, con cui non riesce mai a consumare l’intimità, venendo sempre interrotti. Prabha è quella di mezzo: è sposata, ma il marito è andato in Germania subito dopo le nozze e da allora non si è fatto più sentire. Per questo la donna non accetta le avance di un dottore arrivato da poco in ospedale. Ma, quando le arriva a casa un bollitore per il riso di marca tedesca, si domanda se glielo abbia mandato lo sposo. È un regalo di addio? Infine c’è Parvathy, la più anziana: vedova, non ha nessun documento che possa testimoniare la proprietà della sua casa. Viene sfrattata e, costretta a tornare nel villaggio sul mare da cui proviene, si fa aiutare dalle due colleghe per il trasloco. Lasciando la città, una delle più popolose al mondo, le tre donne, a contatto con il mare, si ritrovano improvvisamente di fronte al proprio destino. Saranno pronte?
Ci sono due anime in All We Imagine as Light: quella della città, immensa, piena di gente, in cui le protagoniste sembrano in perenne attesa che qualcosa accada, nonostante le loro giornate siano piene di impegni e di fatica. Le vediamo sudate, con il viso scavato, aggirarsi per i mezzi pubblici e nell’ospedale, che sottolinea ancora di più le loro occhiaie e i segni della stanchezza con la luce fredda. Una di loro dice: “Non mi ero resa conto che fosse passato così tanto tempo. La città te lo porta via”.Poi, quando si va verso la costa, cambiano i colori, cambia il ritmo, e loro stesse sembrano riacquistare forza. È come se, lasciando quella città traboccante di persone, tutto diventasse più chiaro. Anu, Prabha e Parvathy non hanno bisogno degli uomini a cui sono, più o meno, legate per vivere la loro vita: possono decidere da sole il proprio destino, anche se è confuso e incerto. Prabha chiede infatti ad Anu: “Pensi mai al futuro?”, per sentirsi rispondere: “Credo che il futuro sia qui, ora, e non sono pronta”. La vera forza di questi tre personaggi apparentemente in balia degli eventi è nella loro collaborazione: aiutando la più grande, le altre due sanno che, grazie ad altre donne come loro, potranno andare verso il futuro più sicure. E quando sulla spiaggia viene trovato un uomo misterioso, apparentemente senza vita, sarà il soffio della loro resilienza ed esperienza a farle riconciliare con il maschile e con la vita strutturata della vita in città. Testimone di questa presa di coscienza è il mare: aperto, sconfinato, imprevedibile. Proprio come la pagina bianca di tre vite ancora da scrivere.

Movieplayer

All We Imagine as Light è arrivato quasi alla fine del Festival – decisamente un turning point per i titoli migliori, come il magnifico Grand Tour di Miguel Gomes – preceduto da commenti tutti entusiasti, e dall’emozione per il ritorno in concorso dell’India dopo trent’anni. L’autrice è una giovane regista, Payal Kapadia, scoperta nel 2021 dalla Quinzaine con A Night of Knowing Nothing. Già in quel film affermava una cifra poetica e politica personalissima e al tempo stesso in dialogo con quell’immaginario – dal classico Ray a altri autori più underground delle Nuovelle Vague – che del suo Paese ha saputo cogliere in profondità contrasti, rivolte, mutamenti, sconfitte, utopie. E che conferma il suo talento in questa nuova prova, un film pieno di invenzioni e di epifanie, che sa ascoltare il mondo e mettersi in gioco. Se nel precedente il punto di partenza era il movimento degli studenti universitari nel 2016, e l’amore impossibile fra due ragazzi, qui la cartografia dell’India di Narendra Modi si disegna attraverso tre personaggi di donne, il cui vissuto restituisce le fratture e le tragiche disparità che attraversano la società indiana intera.
Ma All We Imagine as Light è anche la sinfonia di una città, Mumbai, dove le protagoniste – come la regista – abitano, è la metropoli più popolata dell’India, che accoglie persone da ogni luogo del continente mischiando lingue e dialetti e religioni al punto che molti – come il medico dell’ospedale in cui le donne lavorano – fanno fatica a comprendere l’hindi. A Mumbai ogni villaggio ha almeno un famigliare, dice la voce fuori campo nelle prime sequenze intrecciandosi a altre, un coro sussurrato di storie che raccontano la ricerca di un piccolo spazio nella folla che non è soltanto fisico ma soprattutto esistenziale, significa andare avanti, non essere sopraffatti. La macchina da presa attraversa le strade, ne ascolta il respiro, pensieri e stati d’animo si sovrappongono quasi a restituire una interiorità collettiva all’improvviso non più anonima. Una donna per un anno ha lavorato presso dei ricchi e finalmente, dice, «ho mangiato bene, ma ero incinta…»; un uomo cambia mille lavori, la precarietà che inghiotte chi non sta dalla parte della ricchezza nell’India delle classi, della finanza che ha fatto di Mumbai il suo polo privilegiato, dei grattacieli e delle piccole baracche, dei magazzini di super lusso e dei mercati che sembrano appartenere a un altro tempo. Degli operai che sono cacciati ai margini pure se quella città l’hanno costruita, delle speculazioni che cancellano la memoria di ogni esistenza buttando giù case e quartieri per rifondarli nel segno dei privilegi.(…)

(…) Faccio film per capire meglio ciò che ho intorno. La trasformazione di Mumbai è davanti ai miei occhi, non posso guardare da un’altra parte, e rinchiudermi nei miei privilegi» ha detto la regista in una intervista ieri sul quotidiano «Libération». È nel contrasto fra il microcosmo dell’ospedale, i desideri e i sogni di ciascuna donna fuori che fluttuano come le nubi fuori dalle sue mura, l’aria soffocante di Mumbai e l’improvvisa apertura davanti al mare lì dove hanno accompagnato Parvaty, che si compone il movimento del film; un flusso che scorre verso la conquista di una nuova consapevolezza e forse di quell’aria nella quale i desideri possono infine liberarsi, i corpi amare, i fantasmi sparire. Sono i giovani a insegnare, a smuovere il cambiamento, il personaggio di Anu, con la sua rivolta perché innamorata, in questo che è anche un incontro e un passaggio di generazioni, nel quale circola la dolcezza dell’amicizia, della vicinanza, di un mondo femminile. Se la «lente» del genere permette una osservazione amplificata delle crepe sociali, dall’altra contiene l’energia del cambiamento. Lo sguardo di Kapadia – il film potrebbe essere il candidato alla Palma o almeno a un premio importante – lascia entrare in campo elementi imprevisti, è attento alla realtà dei dettagli, al colore, a un volto, a un suono. La sua regia osserva, trasmette le fragilità e i passaggi emotivi dei personaggi mettendosi vicina a loro, muta il quotidiano e senza trucchi né esibizioni di stile ne mostra la poesia. Il respiro mozzo della città nella seconda parte del film si placa in una foresta sensuale, un universo quasi fantastico, dove il tempo rallenta e ciascuno può ritrovare sé stesso insieme agli altri. Una prossimità fatta di cura, attenzione e complicità con cui affermare una possibile resistenza.

Ilmanifesto