Charlotte Wells
DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Musiche
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Classificazione
Attività
Presentazione e critica
Aftersun è un grande film di continue dissimulazioni che riflette sul peso traumatico della verità e che, anche per questo, si diverte a truccare costantemente le carte, a nascondere la sua vera natura, i suoi percorsi, come se fossero troppo complessi da gestire. Il film di Charlotte Wells si presenta dunque come un racconto di formazione a due voci dall’afflato generazionale, tutto pensato in sottrazione, retto dall’evidente chimica tra Paul Mescal (sempre centratissimo, straordinariamente fisico, teso tra la gestualità esplosiva e parentesi di grande introspezione) e la piccola rivelazione Frankie Corio, ma Aftersun è soprattutto una lucida e sistematica riflessione sull’opacità dell’immagine cinematografica.
Perché quando quegli allegri video vengono completati dai ricordi di Sophie, ci si rende conto che Callum è sé stesso solo nel fuori campo: piange disperato quando Sophie non c’è, si perde nei pensieri quando la piccola dorme, si getta in mare di notte, quando nessuno vede. È probabilmente un atteggiamento troppo semplicistico, manicheo a tratti, eppure colpisce la lucidità con cui Charlotte Wells torna, coerentemente, ad una concezione “analogica” del rapporto tra verità e immagine: è vero solo ciò che si può vedere con gli occhi, ciò che si può testimoniare. Forse anche per questo il racconto è dominato da una forsennata pulsione scopica. Tutti guardano ciò che li circonda, da lontano oltre le serrature o le fessure e non è un caso, tra l’altro, se Sophie scopre l’omosessualità del padre guardandolo, non vista, baciare un altro uomo.Ma forse è troppo tardi, forse la verità si può solo sfiorare. Anche le immagini “riattraversate” da Sophie sono intrinsecamente false perché distorte dal ricordo e non possono evitare di caricarsi del trauma di Paul, non possono che ragionare della loro ambiguità. Charlotte Wells, però non fa un passo indietro e le asseconda in tutta la loro complessità
Chiude dunque i due protagonisti in inquadrature strette, li isola come per proteggerli ma è un gesto che non può evitare un sentore di minaccia, come se in quei piani stretti bloccasse anche Callum, prigioniero di un modello genitoriale che non sente suo. Ovvio allora che i momenti migliori sono quelli in cui l’uomo si offre allo spettatore in tutta la sua imperfezione, costantemente indeciso se trattare Sophie come una sorella o come una figlia, insicuro, ma sopratutto incoerente. Aftersun è un film abissale, l’esordio di una regista straordinariamente consapevole delle spigolosità dello spazio in cui sta operando e pronta a raccontarlo senza filtri, esorbitando addirittura in un finale tanto “impossibile” quanto cinico che mostra, implacabile, tutta la caducità del fotogramma, quasi a rimarcare quanto la verità stia racchiusa in immagini mute e a non rimane che un ricordo condannato a sfiorire.
Se Aftersun è un corpo umano che respira e si muove con calma, quasi in punta di piedi, le sue inquadrature sono arti perennemente in movimento, che amano perdere il centro, assurgendo a simboli di una vita ordinaria per un attimo finita fuori dall’equilibrio.
E Aftersun è davvero un’opera “umana” perché improntata su un montaggio disteso, che non corre ma respira lento, a pieni polmoni, unitamente a una regia ristretta, che non ha paura di osare e superare i confini interpersonali, allestendo gallerie di primi piani e riprese leggermente più ampie per raccogliere un senso di complicità intrinseca tra i vari personaggi.
Parte dai bordi per poi spostarsi verso il centro, la regia della Wells; la sua è una macchina da presa che sposta il suo baricentro e trova un nuovo equilibrio. È un film di attimi continuamente in pausa, colti in sospeso, come in pausa e in eterna sospensione è la vita quotidiana nello spazio di una vacanza. Una messa in parentesi della memoria in cui rifugiarsi da grandi, per riassaporare un momento in cui si era felici e non lo si sapeva, con la stessa paziente nostalgia con cui si guarda un’istantanea fotografica sviluppata lentamente per poi sopravvivere in eterno. Essere genitore (anche in giovane età) significa anche convivere con una sorta di filtro censorio, una spinta interiore che porta a nascondere lacrime e dolori dagli occhi vispi e fragili dei propri figli. Davanti a quelle piccole parti di se stessi, i genitori si mostrano con una corazza addosso; nulla e nessuno deve scalfire quell’immagine di cavaliere indomito, o guerriera forgiata dal fuoco di mille battaglie, innestata nella fantasia dei propri figli.
E così anche Calum cela inconsciamente la parte più vera, e dolorosa di sé alla piccola Sophie. Le sigarette fumate con famelica ingordigia, e i primi segni di una depressione sempre più dilaniante, sono lasciati al fuori campo visivo della piccola. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore; eppure, quel lato così fragile e sofferente che tenta di nascondersi alla vista della figlia, cerca anche di scappare dagli occhi artificiali di una videocamera amatoriale, l’unica capace di immortalare la realtà oggettiva dei fatti. Perché in un mondo come quello umano, dove tutto viene filtrato dalla selezione naturale di una mente orientata alla felicità, ogni ricordo viene falsato, e ogni dolore più o meno rimosso. E così quello strumento sempre pronto a rivelare la vera natura del reale, come una telecamera accesa, viene adesso indagato, riguardato a oltranza non soltanto per il piacere della visione, quanto per accertarsi che nessuna lacrima sia stata impressa su pellicola, e nessun segno di sofferenza abbia intaccato il raccordo delle immagini.
È un film ispirato a una storia vera, Aftersun; ciononostante, la sua bellezza risiede nel fatto che quella sua natura autobiografica che tanto lo caratterizza può anche essere ignorata, che nulla muta o cambia, perché quel velo di ricordi lontani, e di maledetta nostalgia, continuerà lo stesso a vestire di una perfetta verosimiglianza e sincera credibilità l’intera opera.
Ogni immagine resta lì, ancorata al pigmento di ogni singola inquadratura dai colori sbiaditi, e dipinta da una fotografia dai sapori anni Novanta, memore di tante polaroid pronte a svilupparsi al ritmo di ricordi che riaffiorano dal buio della mente. Ma se il mondo che circonda i due protagonisti fa da indicatore temporale del periodo di appartenenza della storia (uno su tutti la colonna sonora, ricca di brani cult del tempo come “My oh my” degli Aqua, o “Tender” dei Blur) la storia personale di Calum e Sophie vive di eternità e universalità. Il rapporto intimo tra padre e figlia sconfina i limiti del tempo e dello spazio, tramutando quel momento sospeso di una vacanza all’estero, in un abbraccio stretto prima di un definitivo addio. Un saluto al sole prima che questo scompaia tra le fila dell’orizzonte, restituito con silente poesia e associazioni mentali dove il non detto, o il non mostrato, colpisce ancora più forte di mille parole.
Se Aftersun è un corpo che si muove, scruta, gettandosi tra le acque di un universo che accoglie e respinge come quello della memoria, a donare a questo mondo materico di fattura autobiografica la propria anima sono soprattutto i due protagonisti Paul Mescal e l’esordiente Frankie Corio. Nelle loro espressioni calibrate, nei loro movimenti eleganti, e a volte un po’ impacciati, ma soprattutto in quegli sguardi che scrutano, cercano e si nascondono, prende forma una realtà parallela, figlia di quella realmente vissuta dalla regista, e allo stesso tempo del tutto inedita perché unica nel contesto della Settima Arte. Paul Mescal si conferma nuovamente portatore sano di un’identità maschile che non ha paura di mostrarsi fragile, a pezzi, rotta, proprio come il braccio del suo Calum. La giovane Frankie Corio dal canto suo accetta il compito di accogliere a sé tutte le insicurezze e la potenza di quell’orda di sogni e speranze pronte a essere abbattute tipiche di chi ha 11 anni. Sophie e Callum sono fantasmi e risultati di un processo catartico di esorcizzazione della perdita affidata a quel mondo magico, illusorio di falsare un ricordo per proteggerci dal dolore come il cinema. Un processo paradossale e ossimorico, dato che non vi è nulla di più obiettivo e confutante il peso di un ricordo come la sua registrazione dalla lente di una cinepresa.
Eppure, in questa eterna lotta tra una mente che cambia, e un dolore che rimane, la visione di Aftersun permane impressa come una fotografia, simbolo di un momento in cui si era veramente felici, ma al solo ripensarci veniamo gettati a fondo piscina, come corpi agonizzanti alla ricerca del sole, per poter tornare a vivere e ritornare a respirare, affannati e affamati di vita.