Jesse Eisenberg

Oscar 2025: Premio migliore attore non protagonista a Kieran Culkin


DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Genere
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
In italiano la traduzione diretta di “all-encompassing” è “onnicomprensivo“, ma forse gli manca quella musicalità franta che mantiene la parola inglese. Si potrebbe usare “totalizzante”, allora, e forse ci avvicineremmo un po’ di più all’essenza del personaggio di Kieran Culkin in A Real Pain. Una figura che avvolge tutto, dalle grida alle risate, dai pianti agli abbracci, che Jesse Eisenberg riesce a graffiare sui nostri occhi con lampi improvvisi di fastidio e abissali fiammate d’affetto. Da oggi nelle sale italiane, A Real Pain è una dramedy pulita, scritta e diretta con sottile sapienza e profondissimo cuore da Eisenberg, capace di scaldarci con piccoli gesti di fronte all’enormità della storia che racconta. Che alla fine, in qualche maniera, è anche un po’ la nostra.
David e Benji sono due cugini ebrei di New York, praticamente fratelli, che con i soldi della nonna scomparsa di recente fanno un viaggio organizzato in Polonia proprio per scoprire i luoghi da cui la nonna proviene, e trovare la sua casa natale.
E fin da subito Jesse Eisenberg mette in scena le abissali differenze tra David e Benji: il primo è ansioso in maniera ossessiva, il secondo è tranquillo tra la folla mentre la macchina da presa lo va a scovare. C’è frizione e sospetto: David è convinto che Benji sia in ritardo perché non gli risponde al telefono, mentre lui è già lì ad aspettarlo. A Real Pain gioca subito con i ruoli dei due personaggi, in un tiro alla fune continuo con lo spettatore: appena sei convinto di aver capito Benji ecco uno strattone che ti fa finire per terra. Solo che per terra ci finisce sempre David, totalmente inadatto a contenere la brutale onestà del cugino, che gli porta via un po’ di luce, giorno dopo giorno.
Il viaggio di A Real Pain va a toccare i luoghi dell’Olocausto, con una dilatata delicatezza delle immagini, scelte precise di Jesse Eisenberg che vuole far respirare i luoghi prima di chiuderti dentro il campo di concentramento di Majdanek. E la mente va subito a uno dei grandi capolavori contemporanei (come La zona d’interesse): immagini simili filtrate da sensibilità diverse.
Il punto di A Real Pain infatti è proprio la discussione del dolore, il saper esprimere a parole come ci sente dopo aver visto l’interno di una camera a gas striata dal blu dello Zyklon B. Proprio il Benji di uno strabiliante Kieran Culkin è il magma da cui esplodono i sentimenti, l’unico che mette scomode le persone dicendo quello che pensa, con una sensibilità invidiabile e respingente allo stesso tempo. Vi è mai capitato di conoscere una persona e invidiarla per il suo modo di essere? Rendersi conto che la sua presenza cambia l’umore di una stanza, che la gente magari si ricorderà di lui e non di voi? A Real Pain mette in scena tutto questo, aggiungendo però il fatto che il David di Jesse Eisenberg è indissolubilmente legato a Benji, ai suoi strani modi di stare al mondo, che prima respingono e poi conquistano, lasciandoti sempre appeso a una persona che vorresti prendere da esempio, ma al tempo stesso che a volte preferiresti strangolare.
È umanissima la sceneggiatura di A Real Pain, picchiettata di sorrisi in mezzo al fango dei ricordi, di due vite che sono cresciute lontane ma che non vogliono perdere quel legame che le ha unite, proprio come la casa da cui provengono. Anche se ad accoglierli c’è soltanto una porta slavata in un anonimo cortile. Quello di Jesse Eisenberg è un cinema di particolari che diventano universali: che sia un piccolo gesto come appoggiare una pietra o la stessa scena inquadrata con una prospettiva leggermente diversa, che però cambia tutto. Volevo essere un Benji, canterebbe il personaggio di Jesse Eisenberg, ma sono soltanto David. E forse, alla fine, va bene così.
(https://cinema.everyeye.it)
(…) La seconda pellicola da regista di Jesse Eisenberg trova la propria forza nei due interpreti protagonisti, che sposano totalmente la propria controparte sullo schermo e costruiscono una sorta di danza, emergendo tra gli altri bizzarri personaggi che li accompagnano lungo quel tour del dolore, e così riuscendo a reggere il progetto sulle proprie spalle. I dialoghi e i gli sguardi di David e Benji accompagnano lo spettatore lungo tutto il film, provando a condividere con il pubblico la sofferenza del titolo, che da dolore di uno diventa di tutti.
I cugini avranno modo di confrontarsi sulle questioni irrisolte del proprio passato e sul loro essere di caratteri quasi opposti: David è metodico, ansioso, inserito nella società, con una moglie, un figlio e un lavoro che lo aspettano a casa; Benji è un’anima perduta che sta cercando di ritrovarsi, impulsivo, schietto, dice sempre quello che pensa senza filtri, scatenando spesso disagio in chi gli sta intorno e allo stesso tempo creando un legame profondo. Eppure David finisce per stare sempre da solo mentre Benji diventa l’anima della festa e della conversazione, provocando una sorta di gelosia ed invidia nel primo.
Più che un romanzo di formazione quello di A Real Pain è un viaggio catartico, tanto per i personaggi quanto per il pubblico, attraverso quel dolore “perché c’è un tempo e un luogo per dare sfogo ai propri sentimenti”. Empatia e memoria storica sono i due elementi cardine che emergono dall’importanza di questo viaggio, tanto fisico quanto emotivo, che non diventa mai patetico o retorico ma anzi prova a distruggere quelle consuetudini. L’importanza di capire e riconoscere il sentimento altrui da un lato, il cercare di non ripetere gli stessi errori (e orrori) degli esseri umani. La telecamera di Eisenberg segue i protagonisti e gli ambienti che visitano, a metà tra un documentario di viaggio e un filmino di famiglia, con una regia non eclatante ma intima e pulita. Utilizza un uso dei colori e della luce che vuole trasmettere speranza che non può che provenire dalla sofferenza. Ovvero quella profonda vissuta dai personaggi, quasi una seconda pelle per loro. Non è un caso che la pellicola inizi e finisca con un aeroporto, simbolo per antonomasia non solo del viaggio ma dell’incontro di persone e culture, spesso casuale. “Ci si imbatte in tanta gente strana lì” dirà il personaggio di Culkin, con il titolo del film scritto con un font semplicissimo che appare lì, accanto a lui. Nuovamente, non si tratta di un caso ma di un percorso da accettare.
Non c’è per forza bisogno di fare qualcosa di nuovo o innovativo. Molto spesso, ciò di cui si ha davvero bisogno è qualcosa di conosciuto, codificato, noto e, al limite, prevedibile, purché sia fatto bene, ovvero con la capacità di raccontare una storia in modo che, oltre alla sua trama, dica anche qualcos’altro, magari a un livello più alto, e che si schiuda dentro ogni spettatore in maniere diverse. A Real Pain in parte ci riesce, senza discostarsi dalla classica innocua commediola indipendente, per parlare di esseri umani e, più nello specifico, per fare un po’ di cinema ben recitato.
Il film è di Jesse Eisenberg, che è anche uno dei due protagonisti (noto per aver interpretato Mark Zuckerberg in The Social Network). Non è quindi un caso che una gran parte degli sforzi sia stata dedicata alla recitazione di tutti gli attori e alla scrittura (passaggio indispensabile per elevare la recitazione). (…) A emergere è Kieran Culkin, nel ruolo del cugino scapestrato dalla vita disastrata, disconnesso da qualsiasi regolarità, insoddisfatto di tutto, ma al tempo stesso in incredibile connessione con il mondo intorno a sé, molto più dell’inibito (ma integrato nella società) cugino organizzatore. Non solo è un personaggio scritto con grande sapienza, perché non si rifugia nel classico estroverso, ma incarna un tipo particolare di persona estroversa – con una sfumatura più autodistruttiva e malinconica – ma è anche interpretato con la maestria necessaria a renderlo credibile, a conferirgli un dolore negli occhi che appare subito reale, un’ansia per il domani che non è difficile riconoscere come la stessa di molte persone intorno a noi.
È una variazione sul personaggio che Culkin ha interpretato per quattro stagioni nella serie Succession, ma sufficientemente levigata, lavorata e approfondita da risultare qualcosa di diverso, non sovrapponibile, in un film che, del resto, si presta a qualcosa di nuovo. A Real Pain è un ibrido tra la classica commedia indie-carina-dolceamara americana e il cinema europeo, in cui non sono mai i personaggi a essere funzionali all’azione, ma è l’azione a essere funzionale al racconto dei personaggi: ciò che pensano, ciò che provano e il loro modo particolare di stringere relazioni con gli altri. Quando si parla di cinema di relazioni, ci si riferisce proprio a questo: film che, attraverso una trama pretestuosa (e cosa c’è di più pretestuoso di un viaggio alle radici della propria famiglia?), raccontano relazioni uniche, così specifiche da sembrare distanti da noi, che tuttavia, grazie ai meccanismi dell’immedesimazione, riusciamo a riconoscerle come nostre o appartenenti a qualcuno vicino a noi. È questo che permette a un film sulle relazioni tra personaggi fittizi di sublimare e, al tempo stesso, elaborare quelle tra persone reali. In certi casi, proprio le nostre.