James Mangold

DATI TECNICI
Regia
Interpreti
Durata
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Distribuzione
Nazionalità
Anno
Presentazione e critica
1961. Al capezzale di Woody Guthrie, cantante folk in fin di vita, si presenta un ragazzo del Minnesota, Robert Zimmerman, che si fa chiamare Bob Dylan. Woody e l’amico Pete Seeger lo ascoltano suonare e capiscono di avere a che fare con un talento raro. Dylan si fa strada rapidamente nella scena newyorchese del Greenwich Village e diviene un artista folk adorato per la sua capacità di unire una musicalità innata a temi di protesta che non fanno sconti al sistema. Si lega sentimentalmente a Sylvie Russo, ma la tradisce con Joan Baez, altro talento della scena folk. Fino al 1965, anno della svolta “elettrica”, in cui Dylan suona con un gruppo rock e abbandona i testi impregnati di messaggi politici in favore di un lirismo surreale tra Rimbaud e Dylan Thomas. La comunità di Greenwich Village lo considera un traditore, ma il mondo è ormai ai suoi piedi.
“Chi vorresti essere? Tutto ciò che non vogliono che io sia”. Attorno a questa frase già di culto ruota tutta l’operazione di A Complete Unknown, basato sul libro di Elijah Wald “Dylan Goes Electric!” e approvato in fase di sceneggiatura da Dylan stesso. Risolvere l’enigma Bob Dylan, tra verità e menzogna, mito e idolatria, rimane chiaramente un’impresa impossibile. Allora meglio accettare la vulgata dylaniana per come è e lavorare sulla percezione di Dylan, quella del pubblico dei primi Anni Sessanta e di noi spettatori del terzo millennio. In questo senso l’operazione di Mangold è coraggiosa: seppur non radicale quanto il trattamento di Todd Haynes in Io non sono qui – che scomponeva Dylan in personaggi multipli, interpretati da attori differenti tra loro per età o etnia di appartenenza – è quantomeno abbastanza accorta da evitare l’approccio più tradizionale alla materia biografica.
Qui il peso è tutto sulle spalle di Timothée Chalamet e il focus è solo su un preciso periodo della carriera di Dylan, quello dell’ambizioso folksinger venuto dal nulla, con una valigia piena di canzoni e idee sconvolgenti. Distaccato, arrogante e imperscrutabile, il Dylan di Chalamet è un ragazzetto bizzoso, impossibile da associare logicamente all’autore di “Masters of War” o “Like a Rolling Stone”, proprio come Dylan stesso, da sempre impegnato a nascondere la sua identità nelle composizioni. Come i fan ben conoscono, e come lui stesso ha implicitamente confermato, Dylan è le sue canzoni, nelle quali interpreta il pensiero (contro)corrente della protesta o si allontana da essa per sfuggire al conformismo dell’anticonformismo e dimostrarsi sempre un passo avanti rispetto agli altri. Di qui la scelta di Mangold, anomala per il biopic musicale classico, di privilegiare, quasi fosse un musical, l’elemento sonoro rispetto alla storia, con Chalamet che reinterpreta molti brani del repertorio dylaniano. Il lato più strettamente biografico di A Complete Unknown risulta, di conseguenza, sacrificato in termini temporali e obbligato a semplificare all’eccesso e a introdurre qualche forzatura – ad esempio cortocircuitando l’epilogo a Newport con la presenza di Johnny Cash.
Edward Norton è straordinario nei panni di Pete Seeger, il mentore disilluso, che si rende conto da subito che Dylan lo tradirà come Giuda e che lo surclasserà quanto a talento, ma non può fare a meno di credere in lui; meno approfondite le caratterizzazioni dei personaggi femminili, con Monica Barbaro mirabile nelle performance vocali sullo stile di Joan Baez, ma non altrettanto convincente nelle scene dialogate con Dylan/Chalamet. Difetti e forzature forse inevitabili in un’operazione a così alto grado di rischio, ma in definitiva il totale di A Complete Unknown è superiore alla somma delle sue molte parti.
“Non chiediamo la luna. Abbiamo le stelle”.
(Bette Davis in Perdutamente tua, 1942, di Irving Rapper)
Newport Folk Festival. Sylvie sta guardando Bob Dylan mentre si esibisce con Joan Baez. Non riesce a sostenere quella loro intimità. Sta per scoppiare, si trattiene a fatica, piange e poi scappa via. Crede che la loro complicità sia assoluta mentre invece i due artisti non sono mai stati così lontani. Stacco. Durante la battuta di caccia La regola del gioco (1939) di Jean Renoir, la nobildonna Christine con un binocolo scopre che suo marito Robert sta dando un bacio alla sua amante Geneviève. Per lei è la prova di un tradimento e non sa invece che si tratta di un addio.
Si tratta in entrambi i casi del ‘magnifico inganno’ del cinema. Quello che vede il cineasta non è quello che vede il personaggio. Truffaut, in “I film della mia vita” diceva che Renoir è il più grande regista del mondo. Con lo stesso parametro, nella nostra follia, diciamo senza dubbio che James Mangold è oggi uno dei più grandi autori statunitensi. Quel primo piano, con il controcampo del duetto sul palco, è un’incredibile lezione di regia così come lo era quella del maestro francese. Ma non c’è solo questa connessione. A Complete Unknown ha un taglio principalmente pittorico, esaltato dalla fotografia di Phedon Papamichael che è diventato l’altro occhio di Mangold così come lo è anche per Alexander Payne. In Renoir la pittura degli impressionisti si rianimava, usciva fuori dalla cornice del quadro e riprendeva movimento. Qui Bob Dylan esce fuori dalla sua icona, principalmente cinematografica prima che musicale, già immortalata da Sam Peckinpah (Pat Garrett e Billy the Kid) e soprattutto da Todd Haynes nel suo film più bello, Io non sono qui.
Dal 1961 al 1965. Parte il viaggio di Bob Dylan: l’incontro determinante con Woody Guthrie, l’arrivo a New York, la scalata al successo e l’edizione del Newport Folk Festival del 1965 dove c’è stata la svolta. Lì, il 25 luglio, il pubblico lo ha fischiato quando non ha apprezzato i nuovi brani di Highway 61 Revisited in cui è incluso anche Like a Rolling Stones, canzone di sei minuti che è tra le tappe decisive di tutta la musica di Dylan. Il suo personaggio è introdotto all’inizio a Guthrie da Pete Seeger, tra i più conosciuti folk-singer statunitensi dove Edward Norton è di una bravura mostruosa. A Complete Unknown non è un biopic o, almeno non soltanto. Sembra vagabondare sulle note della musica di Dylan e portarci lontano.
Non si vede la luna ma ci sono le stelle. La scena al cinema dove proiettano Perdutamente tua è già un’intenzionale sguardo alla Hollywood classica e mostra come Mangold, con Ron Howard e Todd Phillips sia oggi uno dei cineasti più legati al passato. Vampirizza quel cinema così come un vampiro è anche Timothée Chalamet, ideale reincarnazione di Wolverine/Logan di Mangold portati sullo schermo da Hugh Jackman. Dietro gli occhiali da sole, non sembra vedere mai la luce. Con gli occhi spesso leggermente abbassati, con la sigaretta in bocca, non interpreta ma assiste anche lui alla mutazione (musicale, esistenziale) di Dylan. Dalla notte al giorno e ancora la notte. Si muove quasi in silenzio, e potrebbe avere degli scatti improvvisi come il cannibale Lee di Bones and All. E poi c’è la sua camminata con la chitarra in spalla e la corsa in moto Triumph, macchina del tempo con cui cavalca la storia degli Stati Uniti di quegli anni, dalla rivolta delle minoranze nere, all’omicidio di Kennedy fino al black out e la paura della ‘fine del mondo’ con il rischio della guerra nucleare. In quest’ultimo caso A Complete Unknown fa una delle grandiosa deviazioni della filmografia di Mangold e il film diventa una specia di thriller fantascientifico. Ma non c’è solo il cinema. Si è davanti prima di tutto all’illusone di un film-concerto. Con la sola differenza che continua anche se si è scesi dal palco e ci si trova da tutt’altra parte: in un negozio di dischi, a casa con Sylvie, per strada quando Dylan sale velocemente su un taxi quando è inseguito dai fans.
Mangold ha superato se stesso. Quando l’amore brucia l’anima. Walk the Line era già strepitoso. A Complete Unknown lo è ancora di più. Dettagliato nei particolari, ma anche sfuggente, e pieno di una passione inebriante. Quando è finito, dopo circa due ore e venti di durata, è stato come un brusco risveglio. Perché quel flusso musicale ma anche sonoro, ha alterato tutte le percezioni. Con lo spazio. Con il tempo. È un risveglio brusco proprio come quello alla fine di Strange Days di Kathryn Bigelow, dove l’elemento sonoro e l’immagine diventano una cosa sola. Anche sotto questo aspetto, A Complete Unknown dialoga continuamente con Walk the Line. Non un sequel ma un incrocio. Bob parla per la prima volta a Pete di Johnny Cash quando sono in macchina, poi c’è una lettera di ammirazione e infine l’incontro. La scena a Newport in cui Johnny porge la chitarra a Bob mostra non solo come il cinema di Mangold non ha bisogno di neanche un dialogo perché può parlare solo coi gesti, ma è un illusorio, bellissimo ponte tra i due film. In A Complete Unknown ‘l’amore (non) brucia l’anima’, ma diventa solo il passaggio tra il passato (ogni silenzio di Woodie Guthrie è più ricco di mille testimonianze sulla tradizione della musica folk) e il futuro. Il finale in moto potrebbe essere anche una visione alla George Miller della saga di Mad Max. Illusione? Ipnosi? Chissà. Poi certo, c’è il seguito, il Nobel per la letteratura. Ma questa è un’altra storia, forse un altro film.
Joan Baez e Bob Dylan cantano insieme Blowin’ in the Wind. Oltre alla musica, i corpi. A Complete Unknown cattura ‘l’attimo fuggente’, lo amplifica e lo dilata. Dietro a questa scena c’è un cinema che celebra la bellezza assoluta. Dell’arte, della vita, degli attori. Oltre che con Guadagnino, qui Chalamet sembra una star anni ’40, così come una bravissima Elle Fanning nei panni di Sylvie e Monica Barbaro in quelli di Joan Baez che ogni volta che compare nell’inquadratura provoca un terremoto ed era già stata una stella col ruolo del tenente Natasha “Phoenix” Trace in Top Gun: Maverick. Si, c’è la Hollywood classica (ancora!) ma anche i richiami Nouvelle Vague (siamo all’inizio degli anni ’60) dove ogni gesto seduzione bacio scontro addio mostravano una continua morte e rinascita. Della vita e del cinema. A Complete Unknown è di una bellezza straripante, che si scorge dappertutto. Un atto d’amore assoluto che, per citare una frase di Dylan, “porta noi stesso in un altro posto dove siamo degli estranei”. Come col cinema di Ophūls, si balla dall’inizio alla fine. Si, è una festa. Anzi, una bellissima festa.